In occasione della presentazione del nuovo rapporto sul riutilizzo in Italia, lanciamo uno sguardo sul settore del tessile e dell’abbigliamento usato con un’intervistata alla fondatrice e Presidente di Humana People to People Italia, Karina Bolin, che si occupa da 40 anni di sostenibilità e lotta contro le disuguaglianze sociali e che ha fatto il punto sul fast fashion. Il comparto dei vestiti usati e del vintage sta vivendo da tempo una crescita costante e sono diverse le novità normative all’orizzonte che in parte lo riguardano, come l’imminente uscita del decreto ministeriale sulla Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) per i rifiuti tessili. Tuttavia Bolin spiega che la maggiore attenzione da parte del pubblico non è supportata da un riconoscimento adeguato da parte dei decisori politici del contributo ambientale, sociale e occupazionale che il settore offre. Ecco che cosa ci ha detto.
Bolin lei è una pioniera dell’usato selezionato e valorizzato. A 26 anni dalla fondazione di Humana People to People Italia, qual è lo stato di salute del riutilizzo del tessile nel nostro paese?
Indubbiamente la richiesta dell’usato da parte dei consumatori è ancora in crescita. È aumentata la sensibilità rispetto ad uno stile di vita più sostenibile e l’acquisto di un capo usato rispetto al nuovo va proprio in questa direzione e rappresenta senz’altro un importante passo avanti. Inoltre l’usato, e in particolare il vintage, rappresenta un modo per valorizzare stili diversi, offre la possibilità di creare un proprio stile, in contrapposizione alle logiche del fast fashion che tendono all’omologazione.
A questa crescita d’attenzione da parte del pubblico non è però corrisposta un equale riconoscimento del contributo ambientale, sociale e occupazionale che il settore offre da parte dei decisori politici che fanno fatica a disegnare strategie e politiche di lungo respiro. A comprova di tale carenza di visione potrei citare le gare a massimo rialzo, indette da comuni e Multiutilities, per l’affidamento del servizio di raccolta e valorizzazione di rifiuti da abbigliamento e tessili post consumo che mettono in secondo piano temi centrali come la professionalità degli operatori, la trasparenza e il controllo della filiera di recupero del tessile. Nonostante ciò raccoglitori e recuperatori hanno accresciuto il loro livello di professionalità e continuato ad investire in innovazioni di processo e capacità gestionali. Alcuni grandi raccoglitori, anche nel resto d’Europa hanno problemi nel gestire i vestiti raccolti e nel consegnarli agli impianti di selezione esistenti, alcuni stanno addirittura pensando di ritirare i contenitori della raccolta dal territorio. I costi intanto aumentano a causa anche di nuove interpretazioni poco chiare della norma e le richieste di gestori e comuni che poco padroneggiano i delicati equilibri che regolano il mercato del tessile post consumo.
La grande sfida per il settore del settore tessile è rappresentata dal rapido incremento del fast-fashion, dell’ultra fast fashion e del nuovo fenomeno della moda “real time”. Tali modelli incrementano notevolmente la quantità di capi prodotti e le vendite di materiale di bassissima qualità con un consumo delle risorse senza precedenti, in un momento storico che invece ci chiede a gran voce di ridurre il consumo di risorse. La conseguenza diretta per il settore del tessile post consumo è un forte incremento del materiale non recuperabile nelle raccolte di abiti.
Per poter allungare la vita di ogni capo è importante, già nella fase di produzione, interrompere le pratiche non sostenibili e stimolare le pratiche di riuso e riparazione. Il mercato dell’usato in Italia, Europa e nel mondo ha un grande potenziale di crescita, mancano però regole chiare e sistemi di distribuzione trasparenti.
In molti Paesi africani, i vestiti usati rappresentano la possibilità di accedere a materiale di qualità a prezzi accessibili, quindi una scelta ambientalmente e socialmente senza dubbio migliore rispetto all’acquisto di capi nuovi fast fashion. Inoltre il mercato dell’usato genera milioni di posti di lavoro anche in queste aree e permette alla gran parte della popolazione di vestire dignitosamente, aspetti recentemente emersi in vari contesti nelle parole di rappresentanti provenienti da Paesi africani.
Ci sono degli strumenti normativi ed economici che potrebbero aiutare il comparto?
Partiamo proprio dall’ultima considerazione e dai rischi che un’errata interpretazione dei dati può generare. Nell’ultimo periodo Francia, Danimarca e Svezia hanno sottolineato che “nel 2019, 1,7 milioni di tonnellate di [rifiuti] tessili sono stati esportati al di fuori dell’UE” e ne deducono che sarà necessario includere i tessili (non specificando rifiuti tessili) agli obblighi di notifica che si applicano oggi ai rifiuti pericolosi, secondo quanto stabilito dalla Convenzione di Basilea, per evitare che questi finiscano in discariche a cielo aperto in Paesi non in grado di gestirli. In quest’analisi, rafforzata nell’opinione pubblica dalle immagini di distese di tessili abbandonati sulle spiagge e in terreni di diverse parti del mondo, non si fa distinzione alcuna tra spedizioni di abiti usati di alta qualità e rifiuti tessili. Ciò anche perché, attualmente non esiste una distinzione tra rifiuti tessili e prodotti tessili usati, nelle classificazioni dei prodotti dell’UE utilizzate per le dichiarazioni di esportazione. Il problema urgente da risolvere non sono però i rifiuti tessili spediti in quanto tali, ma le stesse spedizioni, in cui i rifiuti tessili vengono camuffati da abiti usati e spediti al di fuori dei controlli del regime dei rifiuti. La modifica dei codici della Convenzione di Basilea non arginerà questa terribile pratica ma imporrà maggiori oneri amministrativi, inibendo però i loro sforzi di incrementare percorsi di economia circolare attraverso il riutilizzo e il riciclo del tessile post consumo. La stessa EuRIC Textiles (Confederazione Europea delle Industrie di Riciclo) “sostiene fortemente la definizione di criteri di selezione che assicurino l’invio, al di fuori del regime dei rifiuti, solo degli articoli che possono essere effettivamente riutilizzati e che corrispondono ai requisiti della destinazione finale”.
“Già nel 2021 – ha ricordato in un recentissimo comunicato stampa – EuRIC Textiles aveva stabilito tali criteri che spiegano dettagliatamente i processi di raccolta, preparazione al riutilizzo e preparazione al riciclo. Essi stabiliscono ciò che le aziende di selezione devono richiedere per dichiarare di aver preparato con successo i prodotti tessili raccolti al riutilizzo. La richiesta di tali criteri, e di una dichiarazione di conformità prima di qualsiasi spedizione al di fuori dell’Europa, garantirà che diventi più complicato o addirittura impossibile spedire rifiuti tessili camuffati da abiti usati”.
Ciò a riprova che politiche studiate a tavolino, senza il coinvolgimento di tutti gli attori delle filiere, rischiano di inibirne il funzionamento e peggiorare i problemi che si voleva risolvere con i provvedimenti. Indubbiamente l’Europa con la “Strategia Europea per un tessile sostenibile e circolare” ha lanciato una serie di nuove iniziative legislative che hanno l’obiettivo di regolamentare il mercato e armonizzare le filiere del tessile e abbigliamento anche post consumo. È però importante sottolineare che oggi nell’UE, secondo i dati forniti dalla stessa Commissione Europea, vengono già raccolte circa 2,1 milioni di tonnellate di vestiti e tessili ogni anno; il 70% di questo materiale, una volta selezionato, viene valorizzato come prodotto riutilizzabile; il 20-25% è avviato a processi di riciclo e circa il 5-10% a recupero energetico. È dunque fondamentale essere consapevoli che non si parte da zero ma che esistono filiere e competenze consolidate in decenni di esperienza sul campo e che garantire la continuità dei modelli di business esistenti nel settore tessile post-consumo nelle fasi di raccolta, cernita, riutilizzo e riciclaggio, equivale a garantirsi la migliore opzione anche dal punto di vista ambientale.
Un recente studio condotto da Norion Consulting denominato “Study | LCA-based assessment of the management of European used textiles” ha concluso che il riutilizzo di una maglietta di cotone, raccolta in Europa e venduta in Africa, ha un impatto 70 volte inferiore in termini di emissioni di CO2 rispetto alla produzione di una nuova maglietta di cotone. Ciò significa che l’elemento più importante per ridurre l’impatto negativo dell’industria della moda è prolungare la durata di vita di ciascun articolo
L’introduzione della responsabilità estesa del produttore sarà un provvedimento efficace? Quali benefici porterà alla filiera secondo voi?
L’applicazione della responsabilità estesa del produttore per la gestione del fine vita del prodotto potrebbe creare le risorse necessarie per l’efficientamento della filiera del tessile post consumo e renderla ancor più trasparente e controllata. Il ruolo dei Produttori, sarà a mio avviso ancora più importante grazie alla copertura dei costi operativi e finanziari del prodotto a fine vita, specie per quella crescente percentuale di rifiuti tessili che non possono essere destinati, a causa dei materiali di cui sono composti, a riutilizzo o riciclo. Gli investimenti in ricerca e innovazione tecnologica, finalizzati proprio ad individuare delle soluzioni al fine vita del prodotto con lo scopo del reimpiego delle fibre riciclate in nuovi processi produttivi è la vera sfida del futuro che detterà il successo pieno o parziale dell’enorme produzione normativa che ha interessato ed interesserà il settore.
Per produrre gli effetti sperati i nuovi sistemi di responsabilità estesa del produttore dovranno essere improntati sulla libera competizione in un quadro di sistemi tracciati e controllati, dove la responsabilità e l’azione di coordinamento dei Produttori e dei Comuni sia integrata a meccanismi di concessione della proprietà del rifiuto agli operatori della raccolta e del recupero, grazie ai quali, fin ora, sono state garantite efficienza economica e ambientale delle filiere. Importante inoltre che si continui a guardare ad un mercato globale del riutilizzo senza vincoli territoriali o logistiche obbligate, ma con l’obiettivo reale del minor impatto ambientale.