Non accenna a diminuire la diffusione di piatti e altri manufatti in plastica leggera molto simili a quelli monouso di una volta, che riescono ad aggirare la direttiva SUP con le semplici indicazioni “riutilizzabili e lavabili”. Realizzati principalmente in polipropilene, questi prodotti hanno etichette che recitano più o meno tutte: “Adatti al micro-onde, testati per 20 lavaggi in lavastoviglie” e naturalmente “compatibili con gli alimenti e con l’ambiente”. La filiera italiana della plastica biodegradabile e compostabile ha lanciato l’allarme da tempo, denunciando un buco normativo evidente nella direttiva europea che non chiarisce cosa debba intendersi per prodotto “riutilizzabile”, che sta determinando una profonda erosione del mercato biocompostabile in cui l’Italia primeggia a livello mondiale, con il paradosso di consumare più plastica vanificando così l’obiettivo su cui poggiava la direttiva SUP.
Ne abbiamo parlato con l’amministratore delegato di Ecozema, nonché socio fondatore di Assobioplastiche, Armido Marana.
Marana ci offre il punto di vista di un’azienda pionera nella realizzazione di prodotti compostabili. Nel 2005 le posate dell’omonima linea di articoli monouso biodegradabili e compostabili per il catering furono le prime mondo ad ottenere la certificazione OK-Compost. Oggi Ecozema, una realtà di 30 dipendenti con un fatturato di 10.800.000 euro al 2022, si trova a fare i conti con questa nuova situazione di mercato che vede le bioplastiche tra l’incudine della SUP e la “restaurazione” della plastica tradizionale.
Marana questa situazione inizia ad avere forti ripercussioni anche a livello occupazionale?
Purtroppo sì. Siamo da due mesi in cassa integrazione per due giorni a settimana. Questa è la situazione. Ma era ovvio che si sarebbe arrivati a tutto ciò. E non siamo i soli. I dati di mercato ci dicono che rispetto alle medie precedenti oggi ci attestiamo su un 25% in meno di produzione.
Come si è arrivati a questo punto?
Con l’entrata in vigore della SUP tutto il nostro settore era stato colpito da una fortissima domanda. Tra il 2019 e il 2022 abbiamo raddoppiato il fatturato. Poi sul più bello comincia ad affacciarsi un’interpretazione completamente nuova della direttiva, per cui basta mettere sulle confezioni dei prodotti la dicitura ‘lavabile e riutilizzabile’ e li si può tranquillamente vendere in deroga alla direttiva che ne vieta l’immissione sul mercato. Ci siamo trovati quindi gli stessi prodotti in plastica usa e getta antecedenti al 2019, leggermente modificati ma sostanzialmente gli stessi, venduti come riutilizzabili. In linea generale se una persona compra dei piatti di plastica e poi una volta usati li lava, li può riutilizzare certo. Ma la domanda è: chi lo fa? Nessuno! Tutti li buttano via una volta usati.
Il mercato ha iniziato dunque a spostarsi, a causa di tre fattori insieme, il primo dei quali è che noi eravamo arrivati da poco a bilanciare domanda e offerta di bioplastiche compostabili. Poi la comparsa di questi prodotti ad un prezzo molto più basso e la decisione di moltissime organizzazioni di offrirli al pubblico, che li conosceva bene e quindi non aveva nessun problema nel tornare ad usarli, hanno fatto il resto. Con l’inconveniente che il circuito di riciclo è stato inondato nuovamente di prodotti che vengono gettati per lo più nella plastica e l’ulteriore beffa che molti paesi stranieri in cui noi esportavamo il 25% della produzione di bioplastica hanno iniziato a non prendere più i nostri prodotti, perché diversamente dall’Italia, all’estero non esistono filiere del riciclo dell’organico come la nostra e la bioplastica compostabile viene equiparata alla plastica ai fini SUP.
Si tratta di un buco normativo. Noi infatti diciamo da tempo che la SUP avrebbe dovuto definire con chiarezza il prodotto riutilizzabile.
E il mercato interno?
Anche qui c’è stata una forte erosione del nostro mercato. Due terzi del monouso venduto in Italia viene consumato da un terzo della popolazione residente al sud. Ed è dal sud che è ripartita questa che io chiamo ‘restaurazione della plastica’. Anche negli eventi pubblici si è tornati ad usare i vecchi prodotti, dal più piccolo evento locale fino ai grandi concerti. Il problema, ripeto, non ci sarebbe se questi prodotti fossero realmente lavati e riutilizzati.
Le associazioni di categoria possono fare qualcosa di più?
Qualcosa è stato fatto. Ma i pochi risultati raggiunti finora dimostrano che non è abbastanza. Il problema è che questa cosa ci ha colto alla sprovvista. All’inizio pensavamo che fosse una cosa limitata. Invece no. Cioè ormai siamo arrivati al punto che aziende della plastica convertite alla bioplastica adesso sono tornate a produrre plastica.
Ci siamo mossi, ci stiamo provando, ma come ho detto in Commissione Ambiente al Senato è la politica che deve dimostrare che quello delle bioplastiche è un settore da salvaguardare. Sono i governi che tracciano le linee su cui noi imprenditori mettiamo i soldi. Dispiace pensare che potrebbe non essere così, perché si infrangerebbe anche un sogno che molte aziende come la nostra hanno abbracciato anni fa. Dal 2000 in poi abbiamo sviluppato un know how unico, che ci mette al primo posto nel mondo intero. I nostri prodotti vengono richiesti fino in Sudamerica perché non hanno rivali nel mondo, ad esempio nell’agroalimentare. Rischiamo non solo di perdere tutto questo ma anche di perdere la possibilità di fornire una scialuppa di salvataggio agli amici della plastica, che – rispetto ad applicazioni mirate come i prodotti SUP – convertendo la produzione alla bioplastica, con poca spesa, potrebbero salvare molti posti di lavoro.