SalvaMilano, lettera aperta del Centro Ricerche sui Consumi di Suolo sulla crisi urbanistica della città

Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta del CRCS: “Milano non si salva, ma può redimersi ridando priorità alla regia pubblica delle trasformazioni urbane. Oggi esiste una proposta di riforma, tracciata dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), da cui si può decidere di ripartire, per definire un quadro di principi che limiti gli spazi di arbitrio nella definizione di carichi e oneri urbanistici, dai quali dipende il perseguimento dei cruciali obiettivi di interesse pubblico nei processi di rigenerazione urbana. Una riforma necessaria, perché il caso Milano è sintomo di un sistema che non si tiene più"

L’amministrazione milanese è al centro di una tempesta urbanistica perfetta, in cui sono implicati dirigenti e amministratori nella loro relazione con imprenditori e fondi immobiliari da cui è dipeso l’ultimo quindicennio di trasformazioni urbane. Archiviato finalmente il SalvaMilano che, se approvato, avrebbe abbinato il nome della città al possibile innesco di un’esecrabile e generalizzata stagione di deregolamentazione urbanistica, aspettiamo il passaggio successivo, che non potrà che essere – anche alla luce delle nuove inchieste giudiziarie – un ‘Perdona Milano’, ovvero un cammino di espiazione dell’urbanistica milanese nelle sue istituzioni amministrative, finanziarie e accademiche.

È quindi richiesta una evoluzione, capace di chiamare a raccolta i diversi livelli istituzionali a cui è ascrivibile un concorso, in opere e omissioni, alla cattiva gestione che ha leso la vita urbanistica e amministrativa della città. Le omissioni riguardano anche il livello statale, mai cimentatosi nella composizione di quei principi che, in ossequio alla riforma costituzionale, avrebbero dovuto informare l’attività legislativa delle Regioni in materia di governo del territorio.

Oggi esiste una proposta di riforma, tracciata dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), da cui si può decidere di ripartire, per definire un quadro di principi che limiti gli spazi di arbitrio nella definizione di carichi e oneri urbanistici, dai quali dipende il perseguimento dei cruciali obiettivi di interesse pubblico nei processi di rigenerazione urbana. Una riforma necessaria, perché il caso Milano è sintomo di un sistema che non si tiene più.

Se qui e non altrove è avvenuto lo sfondamento, è perché in questa città si è verificata una convergenza di investimenti immobiliari in grado di esprimere una massa critica di potere finanziario, nei confronti del quale la macchina istituzionale non ha evidentemente saputo tenere testa, manovrando, senza una adeguata visione complessiva della città pubblica, gli strumenti di contrattazione urbanistica.

Indietro però non si torna, e anzi occorre cogliere e consolidare gli elementi positivi, che pure ci sono stati, nell’arco di questo spumeggiante quindicennio immobiliare milanese. La città ha cambiato radicalmente i propri connotati, e la trasformazione si è consumata senza tracimazioni, parlando di consumo di suolo: su questo occorre evitare narrazioni massimaliste, per non rischiare l’indulgenza verso una Milano che, duole ricordare, fino ai primi anni Dieci di questo secolo è stata saldo ostaggio di palazzinari.

Molto è cambiato da allora. Stando ai dati ISPRA, dal 2015 ad oggi Milano ha espanso la propria area urbanizzata di 122 ettari. Per fare un confronto, Roma nello stesso periodo ha fatto la stessa cosa moltiplicata per cinque, ovvero su 671 ettari di suoli agricoli, pur perdendo oltre 100.000 abitanti laddove invece Milano è cresciuta in popolazione.

Se si indicizza il dato al saldo demografico, Milano supera ogni confronto: unico caso in Italia, ha visto crescere il consumo di suolo meno di quanto sia cresciuta la sua popolazione, con il dato migliore in assoluto quanto a efficienza insediativa: meno di 78 mq di suolo consumato per abitante, quando a Roma siamo a 111 mq/abitante, a Torino siamo a 100 e a Bologna a 123 mq/ab.

A Milano, l’ultima grande cementificazione su aree agricole si è consumata con Expo 2015. Da allora si è proceduto non per aggiunta, ma per sottrazioni di aree che, sulla carta, erano già pacificamente destinate all’urbanizzazione: ricordiamo le previsioni per il CERBA, le ‘Aree d’Oro’ di Vaiano Valle, i campi di Ponte Lambro, il Ticinello… milioni di metri quadri espunti dagli ambiti di trasformazione del PGT radicalmente rivisto dalla giunta Pisapia e dall’assessore De Cesaris, e successivamente consegnati alla tutela del Parco Agricolo Sud Milano, con un’opera impegnativa di negoziazione con i fondi immobiliari.

L’impatto mediatico del caso milanese non deve far dimenticare che il consumo di suolo si annida soprattutto altrove, ad esempio nei piani di centinaia di comuni lombardi dove la riduzione perseguita dalla legge 31/2014 è stata aggirata tramite il ricorso sempre più esteso all’intervento diretto nel Tessuto Urbano Consolidato (TUC), nel quale, senza alcun obbligo di ricorso alla pianificazione attuativa, sono depositate previsioni di trasformazione su suoli liberi, prevalentemente agricoli, per oltre 24.000 ettari. Si tratta di suoli preziosi in quanto appartenenti ad aree verdi di frangia, per le quali più rilevante è il contributo in termini di qualità paesaggistica e di erogazione di servizi ecosistemici.

Al netto delle condotte penalmente rilevanti, un serio dibattito sul rinnovamento dell’urbanistica (e sul contenimento del consumo di suolo) deve partire dal consolidamento dei buoni dati che Milano ha proprio sul consumo di suolo, e dalla considerazione che non solo Milano, ma l’intera area metropolitana deve intendere la propria crescita come reinterpretazione di aree già insediate, senza fughe in avanti speculative.

Il patto non scritto tra Milano e i costruttori dopo la crisi dei primi anni Dieci è stato quello di spostare l’asse della pressione immobiliare dall’espansione alla densificazione, fatta passare troppo semplicisticamente per rigenerazione urbana, sulla base di una legge regionale (e di una disciplina nazionale sull’edilizia) che in Lombardia ha consentito di agevolare questi interventi, attivando incentivi cumulativi e vantaggi contributivi, rendendo così insignificante il contributo economico dei privati alla rigenerazione della città.

Sono invece proprio quelle risorse ad essere necessarie per affrontare le emergenze sociali e ambientali, specie nelle aree più periferiche e degradate. Sicuramente si è commesso il peccato mortale di fiaccare le regole (i piani attuativi) in favore di una contrattazione sempre più al ribasso, fino a che il fenomeno ha assunto i contorni di una finanziarizzazione, a prezzi da discount, delle grandi trasformazioni urbane.

Bisognava fermarsi prima, per rivedere regole troppo sbilanciate a favore dei costruttori e ai danni della città pubblica? Sì. Ma non è troppo tardi per farlo ora, anche rimettendo in discussione le leggi regionali e i loro meccanismi attuativi che si sono rivelati – come peraltro largamente previsto – inefficaci o addirittura controproducenti. In questione non c’è la qualità dei processi di rigenerazione che sono avvenuti, su cui si può discutere, ma il fatto che questi processi non abbiano avuto coerenza rispetto al funzionamento dell’organismo urbano, con impatti sia di breve che di medio e lungo raggio, per l’omessa pianificazione attuativa, per l’insufficienza delle leve fiscali che avrebbero dovuto generare risorse per il resto della città, e per l’aumento spropositato delle rendite urbane che ha accentuato il divario tra la città e la sua cintura, con l’effetto rilevante di esternalizzare gli impatti, scaricando sui centri dell’hinterland le funzioni meno pregiate, inclusa la residenza di quanti non possono permettersi di comprare casa a diecimila euro al metro quadrato.

Per risorgere, Milano dovrà dotarsi di una visione di futuro centrata sulle nuove priorità collettive, rese complesse dalla necessità di ripensare le forme e le tipologie degli spazi urbani in una prospettiva di resilienza alle pressioni del cambiamento climatico. Ma dovrà anche darsi strumenti regolativi che tengano insieme il legittimo profitto degli operatori immobiliari con il funzionamento e l’efficacia di una città plurale, che ridistribuisce una parte della ricchezza generata per realizzare nuovi obiettivi pubblici di inclusione sociale, anziché gentrificare, e per una nuova qualità ecologica e ambientale. E dovrà usare questi strumenti in modo rigoroso, giusto e sostenibile.

La prossima trasformazione di San Siro potrà essere un primo banco di prova, per indirizzare le risorse private alla realizzazione di una nuova parte di città verde, che garantisca un’articolata composizione sociale dei quartieri che circonderanno il progettato distretto non solo sportivo.

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