Riciclo organico: bioplastiche promosse, problemi da materiali non compostabili e da inefficienza impianti

È una fotografia a luci e ombre quella contenuta nello studio realizzato dal team di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Civile e Informatica dell’università di Roma Tor Vergata: fare una buona raccolta da sola non basta: per valorizzare davvero gli sforzi dei cittadini e per trasformare questa preziosa frazione dei rifiuti in compost, fertilizzante naturale da riportare nei terreni agricoli, c’è ancora molta strada da fare. Due in particolare gli ostacoli da superare: una percentuale troppo alta di materiali non compostabili che finiscono nell’umido e una struttura impiantistica ancora non adeguatamente efficiente

Sul fronte della raccolta differenziata dei rifiuti organici, l’Italia si è da tempo collocata nel gruppo dei Paesi più virtuosi a livello comunitario. Ma fare una buona raccolta da sola non basta: per valorizzare davvero gli sforzi dei cittadini e per trasformare questa preziosa frazione dei rifiuti in compost, fertilizzante naturale da riportare nei terreni agricoli, c’è ancora molta strada da fare. Due in particolare gli ostacoli da superare: una percentuale troppo alta di materiali non compostabili che finiscono nell’umido e una struttura impiantistica ancora non adeguatamente efficiente.

È una fotografia a luci e ombre quella contenuta nello studio realizzato dal team di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Civile e Informatica dell’università di Roma Tor Vergata, guidato dal professor Francesco Lombardi.

Biorepack (Consorzio Nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in bioplastica compostabile) ha deciso di commissionare questo studio, con un obiettivo principale: verificare le modalità di gestione delle bioplastiche compostabili all’interno del processo di trattamento dei rifiuti organici. Decisamente eccessivi e pretestuosi sono state infatti negli ultimi anni le accuse su una presunta incompatibilità tra le bioplastiche compostabili e i siti di trattamento organico”, spiega Carmine Pagnozzi, direttore generale di Biorepack. In tal senso, l’analisi ha confermato che il comportamento dei rifiuti in bioplastica compostabile è del tutto analogo a quello del resto dell’umido domestico che viene riciclato all’interno degli impianti.

“Le evidenze dello studio – si legge nella ricerca – hanno confermato che esse non presentano problemi gestionali negli impianti con elevato indice di riciclo, ossia con alta efficienza degradativa. In tali contesti, le bioplastiche rappresentano una indubbia risorsa in quanto contribuiscono ad aumentare la quantità di materiale avviabile a riciclo, diminuendo allo stesso tempo gli scarti di processo”.

Eventuali problemi sorgono, peraltro non con le sole bioplastiche, quando gli impianti sono scarsamente efficienti: in questo caso “le bioplastiche vengono scartate insieme ad altre matrici biodegradabili (come gusci di frutta, di uova, ossa o valve di molluschi), oltre che alle plastiche tradizionali e altri materiali non conformi, ragion per cui sono spesso ritrovate non degradate negli scarti”. I ricercatori di Tor Vergata non hanno dubbi: “la loro eliminazione dal processo di trattamento è quindi una mera conseguenza delle inefficienze di tali impianti”.

E a proposito di inefficienze, l’analisi dell’ateneo romano ha restituito un quadro d’insieme sulle performance del sistema impiantistico italiano. “In questo modo, aiuta a comprendere dove è più utile intervenire per raggiungere quello che è uno scopo comune di chi lavora nella filiera dei rifiuti organici e compostabili: massimizzare i tassi di riciclo della FORSU” sottolinea Pagnozzi. Solo così il sistema può migliorare la propria sostenibilità ambientale ed economica, permettendo all’Italia di rafforzare la propria transizione circolare e di raggiungere gli obiettivi previsti dalle normative europee secondo le quali i rifiuti che finiscono in discarica non devono superare il 10% del totale.

“La nostra analisi – spiega il professor Lombardi – è un primo tentativo di individuare gli obiettivi a cui il sistema nazionale di raccolta e trattamento dei rifiuti organici dovrebbe tendere in termini di qualità delle raccolte, riduzione della presenza di materiali non compostabili, massimizzazione del riciclo della FORSU e valorizzazione di tutte le matrici compostabili, comprese le bioplastiche”.

Il metodo di analisi

Lo studio si è incentrato sul livello di performance dei 112 principali impianti italiani, nei quali viene trattato il 96% di tutti i rifiuti organici pari a 4,8 milioni di tonnellate. Ciascuno di loro, nel 2022 ha trattato almeno 5.000 tonnellate di FORSU, almeno 10.000 tonnellate complessive di FORSU e verde e ha presentato dati completi ai fini delle elaborazioni.

I diversi impianti sono stati valutati in base a tre “scenari di efficienza”, a seconda della capacità di eliminare dal processo di trattamento i materiali non compostabili (in particolare plastiche tradizionali, vetro, alluminio e altri metalli) senza scartare al tempo stesso una quantità eccessiva di rifiuto umido e bioplastiche compostabili, che invece possono essere tranquillamente trasformati in compost.

“In termini economici – sottolinea lo studio- una produzione di scarti maggiore del 15% rispetto al rifiuto trattato risulterebbe economicamente non sostenibile, considerando che le attuali tariffe medie per lo smaltimento degli scarti sono, nella migliore delle ipotesi, circa il doppio di quelle del ritiro del rifiuto organico. Un impianto che abbia una produzione di scarti superiore al 15% genera verosimilmente un conto economico in perdita rispetto al processo di riciclo organico. Inoltre, valori superiori al suddetto limite sicuramente non contribuiscono in maniera positiva al raggiungimento degli obiettivi europei sull’effettivo riciclo”.

I risultati

A livello nazionale, a fronte di un valore di materiali non compostabili presenti nel rifiuto organico in ingresso agli impianti del 7,1% il tasso medio di scarto prodotto dagli impianti di trattamento organico è pari al 21,9%, stima la ricerca. Ancora lontani quindi dalla soglia del 15%, indicato come obiettivo da raggiungere. Un risultato figlio della profonda disparità a livello regionale in termini di efficienza impiantistica.

Passando al livello regionale, l’unica Regione il cui sistema impiantistico, considerato nel suo complesso, ha saputo contenere gli scarti sotto al 10% del rifiuto trattato è il Friuli Venezia Giulia. Sotto la soglia del 15% si collocano i sistemi di raccolta di Veneto e Lombardia. In una percentuale di scarti generati non superiore al 20% (scenario primary) rientrano i sistemi di raccolta e trattamento anche di Puglia, Liguria e Piemonte. Nelle restanti 12 Regioni gli scarti superano il 20%.

Se si considerano le prestazioni dei singoli impianti sparsi sul territorio italiano, attualmente sui 112 considerati dallo studio, solo 22 mantengono gli scarti al di sotto del 10%, in altri 9 il tasso di scarto è compreso tra il 10 e 15%, in ulteriori 14 è tra il 15 e il 20%. I restanti 67 sono sopra al 20% di scarti.

“Solo 7 Regioni, ovvero Friuli Venezia Giulia, seguito da Veneto, Lombardia, Puglia, Piemonte, Emilia Romagna e Molise – sottolinea Lombardi – hanno fatto rilevare al loro interno impianti in grado di mantenere gli scarti al di sotto del 10%”.

Al contrario, in 5 Regioni – Trentino Alto Adige, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania – non si riscontrano impianti che soddisfino condizioni di efficienza tali da poter riuscire a contenere gli scarti nemmeno al di sotto del 20%. Ciò significa che in media per ogni 100 chili di rifiuto organico in ingresso in quegli impianti, solo 80 vengono avviati effettivamente a riciclo.

“Le valutazioni esplicitate nel nostro studio devono servire da stimolo per delineare un quadro d’insieme da cui trarre le necessarie indicazioni al fine di attuare le azioni più appropriate per l’efficientamento complessivo del sistema nazionale di raccolta e riciclo della FORSU” osserva Lombardi.

Le azioni da intraprendere

La studio avanza quindi una serie di azioni che, se adottate, potrebbero rapidamente permettere di non scartare e inviare in discarica preziosi rifiuti organici. Da un lato, si sottolinea l’importanza di ridurre la presenza dei materiali non compostabili che “sporcano” l’umido. Fondamentali sono in questo caso le iniziative di comunicazione, sensibilizzazione ed educazione della cittadinanza. Altrettanto utile è investire su sistemi chiari di etichettatura dei rifiuti compostabili e applicare tariffe di ritiro e trattamento variabili in funzione della minore o maggiore presenza di materiali non compostabili nella FORSU, come già fa il consorzio Biorepack con i Comuni convenzionati.

Lo studio evidenzia poi l’importanza di ottimizzare, all’interno degli impianti, i processi di separazione dei rifiuti non compostabili. Solo così si può limitare al minimo il rischio di “trascinare” fra gli scarti le matrici organiche: da evitare la separazione dei materiali non compostabili a inizio processo “in quanto il loro asporto da una massa di rifiuti ancora molto umida comporta l’inevitabile rimozione anche della sostanza organica che tende a restarvi adesa. Uno scarto con alta fermentescibilità risulta tra l’altro di difficile collocabilità in discarica. E soprattutto si tratta di rifiuto in buona parte riciclabile in compostaggio.

Altrettanto cruciale è rispettare le tempistiche di trattamento organico in funzione dell’obiettivo finale di arrivare a produrre compost di qualità. In quegli impianti che non raggiungono livelli adeguati di efficienza spesso si utilizzano infatti tempi troppo brevi. “Ai fini del processo – spiegano i ricercatori di Tor Vergata – sia l’efficienza di riciclo che la qualità dei prodotti finali sono strettamente legati ai tempi di durata del biotrattamento. È quindi doveroso attenersi alle indicazioni fornite dalla normativa tecnica sulla durata minima della fase aerobica del processo, nella quale il rifiuto organico diventa compost. Ciò è essenziale per chiudere il processo di trattamento e ottenere un prodotto riciclato (l’ammendante compostato) di qualità adeguata per l’uso agricolo”. Le indicazioni italiane e comunitarie prodotte dal Ministero dell’Ambiente e contenute nei BREF della Commissione europea (i documenti di riferimento delle migliori tecnologie disponibili) indicano che, per gli impianti solo aerobici, la durata minima non può essere inferiore a 9-10 settimane. Per quelli integrati (anaerobici-aerobici) la durata della sola fase di compostaggio è invece stabilita in 30-45 giorni.

Occorre poi che i gestori di rifiuti nei singoli Comuni ammettano nella raccolta della FORSU tutte le matrici biodegradabili, “compresi noccioli di frutta, gusci di uova e di molluschi, sfalci e potature nonché i manufatti compostabili, che la ricerca conferma essere assolutamente trattabili negli impianti di compostaggio al pari di qualsiasi rifiuto organico” conclude Lombardi. “Va invece evitato di selezionare solo quelle matrici ritenute più facili da trattare per produrre energia nella fase anaerobica del processo”. Tale approccio infatti non è funzionale all’obiettivo globale: riuscire cioè a valorizzare al massimo la FORSU, per produrre sia energia sia compost, in modo da chiudere il ciclo del carbonio, riportare fertilità nei suoli agricoli e limitare inoltre al minimo la quantità di rifiuti inviati in discarica.