Parole d’ordine: sostenibilità, attenzione all’ambiente ed eco-friendly. Ma è sempre così? Le aziende, istituzioni ed enti sono veramente legate all’etica ambientale? Se è vero che sono tante le realtà aziendali e finanziarie che si stanno impegnando realmente a ridurre il proprio impatto sul pianeta, è altrettanto vero che sempre di più assistiamo ad operazioni di greenwashing. Sono molte, infatti, le aziende che dichiarano di essere eco-friendly e fanno della sostenibilità ambientale ed etica un loro punto di forza, ma nel concreto poi compiono scelte lontane dalla tutela dell’ecosistema e dei propri dipendenti, attuando vere e proprie strategie che rimangono solo sul piano comunicativo o di marketing con l’obiettivo finale di occultare l’impatto ambientale negativo che producono.
“Sconfiggere il greenwashing è un passaggio obbligato per dare senso, futuro e piena efficacia all’idea stessa della transizione ecologica. Smascherare questa pratica, spesso basata su vere e proprie fake-news, conviene non solo a cittadini, consumatori ed ecologisti, ma anche e soprattutto alle imprese che sono realmente eco-friendly”, sottolinea Francesco Ferrante del team di Circonomia.
A fare il punto sulle difese contro il greenwashing messe in campo dalle autorità dei principali paesi (USA, Italia, Francia, Germania, Regno Unito) e da istituzioni sovranazionali quali Onu e Ue è un dossier elaborato da Circonomia e presentato venerdì 27 maggio nel corso del Festival dell’economia circolare e della transizione ecologica.
Greenwashing e protezione: come si difende l’Italia, l’Europa e il mondo
Esistono già da tempo in Italia alcune regole di comportamento per cercare di ottenere una comunicazione corretta sulla tutela ambientale, stilate nel 2014 dall’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria con l’obiettivo per proteggere i consumatori dal fenomeno del greenwashing. Tuttavia, la mancanza di standard uniformi e regolamenti chiari rende difficile per le aziende garantire la piena conformità legale quando pubblicizzano i benefici ambientali dei loro prodotti. Ad esempio, con il recente ingresso nell’ordinamento italiano della Direttiva SUP (Single Use Plastic), che vieta l’immissione sul mercato di oggetti in plastica monouso che non siano biodegradabili e compostabili, stanno apparendo sugli scaffali di diversi supermercati italiani, da Carrefour a Famila, fino ad Acqua e Sapone, prodotti di svariati marchi che propongono il claim “reusable” o riutilizzabile, malgrado molti di essi non ne presentino alcuna caratteristica reale e non siano certamente al 100% in materiale biodegradabile e compostabile. A trarre in inganno i consumatori, non sono solo le false affermazioni “sostenibili”, ma anche il prezzo spesso inferiore ai prodotti realizzati completamente con materiale bioplastico.
Nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, molti governi e autorità di controllo stanno approntando linee guida per arginare e sanzionare il diffondersi del greenwashing. Proprio in questi giorni la Sec (l’autorità di vigilanza della Borsa degli Stati Uniti) ha emanato una prima bozza di linee guida per definire le informazioni che i fondi d’investimento devono fornire quando qualificano le loro offerte con termini quali “Esg”, “sostenibile” o “low-carbon”. Un obiettivo ambizioso: basti pensare che il patrimonio globale dei fondi “sostenibili” ammontava negli USA a ben 2,77 miliardi di dollari alla fine del primo trimestre del 2022, contro il miliardo di dollari del 2019 (fonte: Morningstar).
Più in generale, il Rapporto di Circonomia sottolinea come l’Unione Europea, nella cornice del Green Deal e attraverso diverse direttive, si stia impegnando nel formulare una serie di misure, sia per quanto riguarda la protezione dei consumatori contro le affermazioni ambientali false, sia dando delle regole ai produttori affinché non inducano in errore i cittadini (per esempio sulla durabilità e riparabilità dei prodotti).
Anche il settore finanziario europeo è a rischio di greenwashing: soprattutto le aziende quotate che se si rendono protagoniste di queste pratiche scorrette, corrono l’elevato rischio di subire danni significativi alla propria capitalizzazione. Al fine di rispondere alle continue minacce provenienti da dichiarazioni ambigue dei criteri ESG, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) ha deciso di circoscrivere il fenomeno fornendo una definizione più accurata, così da permettere ai commissari UE di perseguire ogni atto illecito attraverso provvedimenti di contrasto. L’obiettivo è quello di garantire che un determinato fondo sia effettivamente uno strumento di finanza sostenibile a sostegno di iniziative green. L’espansione dei Green Bond e la reale minaccia del fenomeno del greenwashing, ha portato la Commissione UE a stabilire alcuni criteri relativi alle obbligazioni verdi, inquadrandoli nello European Green Bond Standard (EUGBS).
Esempi di greenwashing e linee guida nel mondo
In Europa e nel mondo sono state stilate una serie di linee guida volte a salvaguardare il consumatore contro le pratiche di greenwashing.
Anche in Germania, che si è dotata di una bozza di linee guida presentata recentemente dalla Bundesanstalt Für Finanzdienstleistungsaufsich (BaFin), non sono mancati esempi di greenwashing. Uno fra tutti il noto marchio sportivo Adidas. La multinazionale, nel 2021, è stata ritenuta colpevole di aver sostenuto affermazioni false e fuorvianti legate alla sostenibilità, dopo aver inserito nello slogan “Always iconic. Now more sustainable” per sponsorizzare le sue iconiche scarpe Stan Smith riciclate solo al 50%.
Un modello di contrasto al greeenwashing che si sta affermando, forse con più accuratezza, è quello francese. L’Assemblea Nazionale francese ha infatti deciso di adottare, lo scorso luglio, il disegno di legge “per combattere i cambiamenti climatici e rafforzare la resilienza”, noto anche come Legge sul clima e sulla resilienza. Adesso rimane da capire come si affronteranno, con l’applicazione della nuova legge, casi come quelli che hanno riguardato alcune banche che si sono promosse come green nonostante la maggior parte dei loro investimenti fossero su fonti fossili.
L’impegno delle autorità del Regno Unito è invece rappresentato dalla stretta collaborazione che si è instaurata tra la Competition and Market Authority (CMA), l’autorità di regolamentazione della concorrenza nel Regno Unito, e le diverse autorità di regolamentazione, come l’Advertising Standards Authority (ASA) e il Committee of Advertising Practice, al fine di instaurare una regolamentazione pubblicitaria maggiormente stringente sulle tematiche legate al cambiamento climatico e alle sfide ambientali.
Anche nel Regno Unito, però, sono stati rilevati casi di greenwashing: uno tra tutti è la campagna di marketing condotta dalla compagnia aerea Ryanair. L’azienda aveva dichiarato di avere “basse emissioni di CO2”, oltre ad essere la compagnia che produceva la minor quota di emissioni. Secondo l’Advertising Standards Authority, invece, questo claim è da considerarsi fuorviante, tanto che secondo un rapporto dell’UE Ryanair venne inserita tra i primi 10 produttori di emissioni di carbonio.
E gli Stati Uniti? La Securities and Exchange Commission (SEC), l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, ha messo di recente sotto controllo i fondi di investimento, il paese è da tempo attento al fenomeno del greenwashing.
Risalgono, infatti, al 1992 le prime linee guida verdi “Green Guides”, redatte dalla Federal Trade Commission (FTC), l’agenzia governativa per la tutela dei consumatori; nel 2021 è stata istituita la Climate and Environmental, Social and Governance Task Force nella Division of Enforcement, per individuare in modo proattivo i criteri ESG (Environmental, Social and Governance). Inoltre, grazie alla collaborazione transnazionale tra la Securities and Exchange Commission (SEC) e la BaFin, l’autorità federale per la supervisione del settore finanziario tedesco, è stato possibile condurre un’inchiesta contro il fondo DWS della Deutsche Bank, accusata di aver ingigantito le credenziali dei criteri ESG di alcuni prodotti venduti poi alla clientela come investimenti sostenibili.
Anche in questo contesto fortemente regolamentato, è stato possibile notare fenomeni legati al greenwashing, come ad esempio Coca-Cola, che ha deciso “di sostituire il 20% della plastica vergine con quella riciclata, creando nuove bottiglie in polietilene tereftalato riciclato (rPET), materiale termoplastico realizzato in petrolio, gas naturale o materie prime vegetali, adatto al contatto con il cibo”. L’azienda ha poi sottolineato: “Stiamo riducendo le emissioni per l’equivalente di 2120 auto tolte alla strada in un anno”. Malgrado l’impegno della multinazionale, l’affermazione però sembra distorcere almeno in parte la realtà, perché le nuove bottiglie in rPET rappresentano solo una minima parte della produzione totale. Ma non è la prima volta che la compagnia americana si macchia di pratiche considerate dalle ong di greenwashing: già nel 2021 l’Earth Island Institute intentò una causa contro Coca-Cola, la quale si definiva “sostenibile ed ecologica”, mentre, al contrario, generava più plastica di qualsiasi altra azienda al mondo. Nonostante le affermazioni aziendali e di marketing come: “il nostro pianeta è important”, “un mondo senza rifiuti” e “riduciamo la nostra impronta di carbonio”, il rapporto Break Free From Plastic Global Cleanup e Brand Audit nominò Coca-Cola come il numero uno degli inquinatori di plastica aziendali degli ultimi tre anni, con quasi 14mila materiali plastici in 51 paesi nel solo 2020.
Il dossier completo su www.circonomia.it