Per contrastare lo spreco alimentare è necessario un nuovo sistema di relazioni e di produzione attento alla giustizia sociale e alla sostenibilità ambientale. È questa la visione di Avanzi Popolo 2.0, il progetto di innovazione sociale legato allo spreco alimentare che dal 2014 lavora a Bari e provincia per costruire nuovi modelli relazionali intorno al cibo che rischia di essere buttato. Come? Mettendo in contatto i luoghi dove si produce lo spreco (famiglie, dettaglianti e ristoratori) e i luoghi del bisogno.
Un vero e proprio hub, quindi, che investe su cultura e prossimità per prevenire e arginare lo spreco alimentare e creare nuovi micro-modelli inclusivi ed ecologici. A raccontare il progetto promosso dall’Associazione di Promozione Sociale Onlus “Farina 080” ETS, Marco Ranieri – co fondatore di Avanzi Popolo 2.0, in occasione della Giornata Nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare del prossimo 5 febbraio. Ricordiamo che secondo la Fao un terzo della produzione alimentare di cibo è a rischio spreco. Si tratta di 1,3 miliardi di tonnellate che se, per assurdo, traslassimo verso la povertà, andrebbero a sfamare per 4 anni gli oltre 868 milioni di poveri nel mondo. A questo si aggiunge l’impatto ambientale della produzione di cibo che poi finisce in pattumiera.
Il vostro progetto si basa sulla prossimità e sulle relazioni. In che senso?
Siamo da sempre convinti che la dimensione locale sia la chiave giusta per prevenire e contrastare lo spreco alimentare. C’è un passaggio delicato su cui ci siamo soffermati molto: la ridistribuzione delle eccedenze non può essere l’unica soluzione per contrastare il problema dello spreco, perché il motore della produzione alimentare spesso lavora per generare eccedenze e quindi spreco. È nella stessa natura di questo tipo di produzione generare di più: è un sistema che si basa sull’iperproduzione e l’iperconsumo. Da questo punto di vista la tendenza a donare, grazie anche alla Legge Gadda del 2016, è in crescita, ma manca la spinta a cambiare alla radice il modello di produzione e consumo. Il rischio è che le organizzazioni che lavorano per la ridistribuzione diventino involontariamente un tassello dello stesso meccanismo che porta agli sprechi.
La nostra riflessione, condivisa anche all’interno della rete nazionale Food pride di cui facciamo parte, è quella di superare la logica centralizzata dei centri di distribuzione e investire sulla dimensione locale, costruendo relazioni. Da questo punto di vista, è fondamentale il tema delle food policy cittadine, e quindi un’analisi di come all’interno delle città si produce e si consuma cibo. Milano e Livorno hanno fatto un bel lavoro su questo e anche Roma ha iniziato un interessantissimo percorso dal basso.
Come funziona Avanzi Popolo?
Noi non ci occupiamo direttamente di redistribuzione di alimenti, ma recuperiamo eccedenze e le mettiamo a disposizione di realtà che già si occupano di contrasto alla povertà. Il nostro lavoro è di connettere due mondi che spesso non si parlano: contrasto alla povertà e produzione alimentare. Abbiamo pensato a un modello decentralizzato, che non prevede la costruzione di magazzini dove il cibo converge per essere distribuito, ma tesse legami per il loro recupero a km0. Questo meccanismo alimenta le dinamiche relazionali e contribuisce a costruire legami più duraturi che vanno oltre la nostra mediazione. Per questo, ad esempio, preferiamo dotare le sedi Caritas di quartiere di frigoriferi o dispense in cui raccogliere e condividere le eccedenze piuttosto che creare un magazzino centralizzato.
Lavoriamo su tre filoni principali: quello sociale, e quindi la messa in contatto dei luoghi dello spreco con quelli del bisogno; ecologico, come l’esperienza della piattaforma di foodsharing – purtroppo in standby a causa del covid – o dei frigoriferi solidali; culturale, con progetti di educazione al contrasto allo spreco, soprattutto nelle scuole.
Abbiamo diverse attività. Ci sono le raccolte di quartiere, in cui grazie alla donazione di una bicicletta con carrello, sono stati mobilitati gruppi informali di persone nella raccolta delle eccedenze alimentari nelle botteghe di Bari, nei quartieri Madonnella, Picone, Japigia e Libertà. In questo modo abbiamo messo a disposizione degli Sportelli Caritas del quartiere circa 30 chili di alimenti a raccolta, attivando nuove forme di fiducia e responsabilità condivisa sul territorio.
C’è poi il progetto del Frigo Solidale, per diffondere la cultura del foodsharing attraverso l’installazione, in tutto il territorio della città di Bari e provincia, di sette frigoriferi e dispense solidali, utili a lasciare o ritirare cibo ancora commestibile. Ma forse il progetto che più ci permette di estenderci su tutto il territorio regionale è quello del recupero dei banchetti matrimoniali, grazie alla collaborazione di tantissime realtà solidali. In questo modo, le eccedenze dei banchetti vengono ridistribuite a persone in difficoltà a km0, riducendo anche i rischi legati alla sicurezza alimentare.
Quali sono i principali dati del vostro lavoro?
In questi anni abbiamo recuperato 76.398 kili di cibo in 1345 operazioni. I donatori sono 227 e 83 organizzazioni beneficiarie.
È cambiato il vostro impegno in questi anni dettati da pandemia e crisi economica?
Si, tanto. Durante l’emergenza pandemica abbiamo lavorato a supporto di piccole organizzazioni di carità che facevano un gran lavoro sui territori e c’è stato un forte impatto sulle nostre raccolte di quartiere: il numero di volontari è stato contingentato ma allo stesso si è rafforzato il tema della prossimità.
Sulla proposta del reddito alimentare avanzata dal Governo Meloni a fine dicembre qual è il vostro punto di vista?
Abbiamo un punto di vista chiaro che abbiamo espresso in occasione della sua uscita: misure per il contrasto alla povertà e per la riduzione degli sprechi alimentari sono assolutamente necessarie e auspicabili, ma bisogna realizzarle superando la logica della centralità. Inoltre, su questo provvedimento mancano ancora i dettagli che permetterebbero di analizzarlo e capire in che direzione sta andando.