La frazione tessile della raccolta differenziata nel 2019 è stata pari a circa 160 mila tonnellate, contro le 129 mila del 2015. Sono i dati del rapporto Rifiuti Urbani dell’Ispra, secondo cui il risultato produce una raccolta differenziata di circa 3.50 chilogrammi per abitante, a fronte di un consumo medio (in aumento) di più di 16 kg per abitante.
Il risultato è che ci sarebbero quasi un milione di tonnellate di abiti usati da ritirare e avviare a seconda vita, ricordando che tra il 65 e il 68% degli abiti usati se raccolti separatamente va a riutilizzo, quindi a una seconda vita che non implica interventi industriali, trattamenti, distruzione della materia.
Contemporaneamente le catene del fast fashion continuano una politica molto aggressiva, fatta di prezzi stracciati, di immissioni di nuove collezioni continue (si è passati da 4 a 24 collezioni all’anno).
In questa situazione, la rete Onu (operatori nazionali dell’usato) fa alcune considerazioni sull’usato e sulla gestione e destino della sua raccolta:
1) assistiamo oggi ad un vero e proprio boom di vendite in Italia di abiti usati, vintage, al kilo, dovuto non solo all’unicità del pezzo e al minor costo, ma ad una crescente e accentuata sensibilità ambientale del cittadino che preferisce dare una seconda vita ad abiti usati piuttosto che acquistarne di nuovi;
2)contemporaneamente, complice la pandemia, è aumentata a dismisura la richiesta dei cittadini di poter smaltire gli abiti e i tessuti di cui vogliono liberarsi a chi ne possa fare un uso sostenibile dal punto di vista ambientale ma anche sociale;
3) a fronte di tutto questo il Governo e il Parlamento italiani decisero un paio di anni fa di rendere obbligatoria la raccolta differenziata del tessile a partire dal 1 gennaio 2022, anticipando di 3 anni l’obbligo per tutti i paesi UE previsto per il 2025 : operazione virtuosa ma vanificata dal fatto che la legge, che approfondiremo qui di seguito, non è stata accompagnata né da incentivi e neppure da sanzioni, con il risultato che chi già raccoglieva in modo differenziato, (si calcola che circa nel 70% dei comuni italiani c’è qualcosa del genere), continua a farlo, mentre negli altri nulla è accaduto.
Infine, e questo argomento merita un approfondimento più dettagliato, la stessa legge con cui si istituiva la, teorica, raccolta differenziata obbligatoria in tutta Italia, accoglieva la Direttiva UE sulla EPR, in Italia REP, la Responsabilità Estesa del Produttore, provvedimento con il quale si istituiva un contributo ambientale su ogni bene durevole prodotto per assicurare il prolungamento della vita e poi lo smaltimento.
Il meccanismo, già applicato in paesi virtuosi è apparentemente semplice: ogni capo nuovo venduto contiene nel prezzo una somma minima che però si accumula con quelle di tutti i capi nuovi venduti in Italia, il capitale così ottenuto viene versato a un consorzio o struttura simile, che ridistribuisce il denaro a tutti i soggetti che in modo certificato contribuiscono alla raccolta e alla seconda vita degli abiti usati raccolti.
Così accade ad esempio per gli pneumatici in Italia e così, in modo molto più esteso, capita ad esempio in Francia per milioni di pezzi non solo di tessile ma anche di oggetti, arredi, beni durevoli in genere: è sufficiente recarsi in un negozio e vedere in bella mostra accanto al prezzo la quota destinata alla “ecotassa”.
Purtroppo, dopo l’approvazione di una legge virtuosa, come spesso accade, lo Stato italiano si è arrestato e ad oggi non solo non abbiamo i Decreti Attuativi della L.116/2020 e quindi della REP, ma neppure sappiamo quali sarebbero le linee di indirizzo per la gestione dei fondi raccolti con la ecotassa: dallo Stato direttamente, da una filiera di consorzi, con il controllo e la collaborazione delle Associazioni del settore, indirizzati verso le aziende produttrici o verso i raccoglitori e riutilizzatori?