Salvo sorprese, dal 1° luglio 2022 sarà obbligatorio per le aziende inserire sui loro prodotti e/o imballaggi l’etichetta ambientale. Un pratico strumento che aiuterà i consumatori a conferire nel miglior modo possibile i rifiuti. Uno strumento che se ben realizzato può dare un forte impulso all’economia circolare, migliorare la qualità dei rifiuti differenziati e trasformare i consumatori in campioni di differenziata.
Insomma una grande opportunità ma ad oggi sono pochi gli strumenti in mano delle aziende che possono guidarle nella compilazione di un corretta etichetta ambientale. Il più importante e valido è quello messo a disposizione da Conai, ovvero le “Linee Guida sull’etichettatura ambientale degli imballaggi“ con la relativa piattaforma online etichetta-conai.com, nella quale confluiscono una serie di strumenti e di documenti di supporto per gli operatori del settore.
Complice una eccessiva frammentazione del settore della gestione rifiuti, di impianti di selezione eterogenei e che costringono i cittadini a regole diverse da comune a comune (e in alcuni casi addirittura da quartiere a quartiere), le insidie per le aziende e per il consumatore sono dietro l’angolo. Il principale alleato delle aziende in questa nuova sfida è la digitalizzazione ma il rischio, molto concreto, è che la futura etichetta (reale o digitale che sia) si trasformi nel nuovo campo di battaglia dove potersi sfidare a colpi di marketing e greenwashing.
Per capire cosa sta succedendo a pochi mesi dall’entrata in vigore dell’’etichetta ambientale, abbiamo contattato Noemi De Santis (tra i fondatori di Giunko, la PMI innovativa che ha ideato e lanciato la famosa app Junker) che insieme al suo gruppo di lavoro ha realizzato la prima (e forse anche l’unica) etichetta ambientale digitale tutta italiana. Si chiama EAD by JUNKER ed è stata riconosciuta come ‘Best Practice di Etichettatura Ambientale’ da parte di Conai.
Una etichetta che non solo informa sul materiale o i materiali con cui è fatto il prodotto attraverso la scansione del codice a barre o di un QR code ma riesce a indicare al cittadino, e con estrema precisione, dove come e quando conferire quel rifiuto nell’apposito cassonetto su tutto il territorio nazionale, rispettando le specifiche regole della differenziata del Comune in cui si trova l’utente, grazie al database di Junker.
Cosa è l’etichetta ambientale e perché ci serve?
Prima di tutto bisogna dire che l’etichetta ambientale è uno degli elementi individuati dalla Unione europea per raggiungere gli obiettivi di riduzione dei rifiuti, per migliorare la raccolta differenziata e l’avvio a riciclo, con la conseguenza di ridurre l’uso di discariche e inceneritori. Finalmente l’Italia dopo tanti anni ha recepito e deciso di mettere delle chiare informazioni su come e dove si smaltiscono gli imballaggi dei prodotti di consumo.
Quindi è evidente che se il consumatore ha delle chiare indicazioni di smaltimento sulla confezione di un prodotto non ha più scuse per far finta di non saper differenziare. È una modalità diversa per informare, educare e stimolare il consumatore a fare bene e spingerlo verso una economia circolare. Fin qua tutto bene ma…
Ma…
Facciamo finta di non sapere che la prima direttiva europea sull’etichettatura ambientale è stata concepita nel 1994 e recepita dopo ventotto anni.
Facciamo finta di non sapere che a settembre 2020 si tentò di approvare una norma che, tra i tanti temi e con un articolo di sole cinque righe, diceva che da quel momento e con efficacia immediata tutti gli importatori, i produttori, i distributori in solido dovevano assicurarsi di mettere chiare informazioni sulla natura del prodotto, ovvero indicare di che materiale è fatto o composto, e per di più indicare la frazione di destinazione di quel prodotto a fine vita. Quindi se va nella plastica o nel vetro, o insieme alluminio eccetera. Cinque righe, poi il caos. In questo clima è scattata la prima proroga di un anno.
Cosa è successo in questo periodo?
In questo ultimo anno il Conai si è preso l’onere di redigere delle linee guida per la realizzazione e la normalizzazione di questa etichetta ambientale, e come sempre accade quando si prova a creare uno standard comune emergono sempre criticità.
La prima, non proprio piccola, è che moltissime aziende non avevano mai dato la giusta attenzione alla natura dei materiali con i quali venivano realizzati gli imballaggi dei propri prodotti. Tutto questo mentre la maggior parte dell’opinione pubblica diventava, anzi lo è già, attenta alle questioni ambientali. Quindi molti produttori si sono resi conto che avrebbero dovuto scrivere che il loro prodotto non era riciclabile, come per esempio chi utilizza alcuni poliaccoppiati.
Ma veniamo al digitale. Ci sono settori come quello della cosmetica, del vino o dei tabacchi – solo per fare alcuni esempi – che utilizzano packaging di dimensioni molto ridotte. Pensiamo agli ombretti, smalti, matite per gli occhi. Oppure alle etichette delle bottiglie di vino ricche e dense di informazioni, o ai pacchetti di sigarette. Bisognava inventarsi qualcosa per fare in modo che queste nuove informazioni trovassero uno spazio adeguato. Quindi dal Ministero, come già indicato nella direttiva europea, hanno concesso di inserire il canale digitale tra i mezzi possibili per informare i consumatori. E qui è entrato in gioco Junker e la sua esperienza fatta di sei anni di classificazione dei prodotti di consumo e su come riciclarli.
In che modo avete valorizzato questo know how?
Il primo passo è stato quello di assicurarsi che le nostre schede prodotto rispecchiassero tutte le linee guida realizzate dal Conai e che fossero a norma di legge. Abbiamo fatto anche dei corsi, sempre organizzati dal Conai, per essere riconosciuti come esperti di etichettatura ambientale, in quanto con l’obbligatorietà nasceva l’esigenza, non solo da parte delle aziende, ma di tutto l’indotto che si muove attorno al packaging, di crearsi una competenza in un ambito del tutto nuovo attraverso dei professionisti formati.
Più si andava avanti nella formazione su queste nuove competenze più ci rendevamo conto che le nostre schede prodotto non solo rispettavano appieno le linee guida ma addirittura davano anche informazione in più perché la nostra app geolocalizza, in maniera anonima, l’utente che in quel momento sta facendo la richiesta di informazione su quel determinato prodotto e gli mostra le regole locali. Mi spiego meglio.
Attraverso lo smartphone e Junker noi sappiamo da quale città arriva la richiesta di informazioni su quel prodotto e, incrociando le info dei materiali del prodotto con le regole di smaltimento Comune per Comune, riusciamo a fornire l’informazione esatta, cosa che non si può fare su una generica etichetta fai da te.
Uso il termine fai da te perché molte aziende, soprattutto nella grande distribuzione organizzata, hanno giustamente cominciato a lavorare per mettersi in regola il prima possibile. Ma quello che ne esce fuori è che, nonostante si siano dotati della giusta etichetta ambientale, si scontrano con la realtà italiana della raccolta rifiuti. Faccio un esempio. Se prendiamo i cartoni per bevande a Torino vanno conferiti con la carta, come a Milano e Roma, ma a Firenze e in mezza Toscana o a Salerno e in buona parte della Campania vanno insieme alla plastica. Questo perché a fare la vera differenza sono gli impianti di selezione dei rifiuti.
Quindi se pensiamo al latte, ai succhi di frutta, al vino e a quella moltitudine di prodotti in giro per l’Italia il cui imballaggio è fatto in cartone per bevande, e su cui c’è scritto che va conferito nella carta, allora riusciamo a vedere il problema e il vero limite di questa nuova legge che nasce per fare chiarezza e mettere gli utenti nelle migliori condizioni per differenziare il proprio rifiuto ma, nei fatti, su alcuni prodotti rischia di dare informazioni fuorvianti.
In questo momento, ed è un esempio concreto, c’è il Consorzio Comieco che sta facendo una grossa campagna di comunicazione in alcune città della Campania per ricordare che lì i cartoni per bevande non vanno conferiti con la carta ma con gli imballaggi leggeri.
Alla fine chi paga questo errore?
In prima battuta l’utente o consumatore, perché durante un eventuale controllo sul conferimento risulterebbe suscettibile di multa perché, nonostante la buona volontà di fare la raccolta differenziata, l’etichetta lo sta inducendo in errore. Dopo l’utente, a pagare questo errore ci sono i Comuni, semplicemente perché a regime si ritroveranno frazioni di raccolta differenziata più sporche e quindi peggio remunerate dal Conai. In pratica il cittadino rischia di pagare due volte. Errori questi che con l’etichetta ambientale digitale non avvengono.
Ci sono altri esempi di errori così grossolani?
La carta forno. Tecnicamente un PAP 22 quindi carta o comunque un materiale che posso smaltire nella raccolta della carta. In realtà quel prodotto subisce dei trattamenti particolari, per la precisione la carta da forno viene precedentemente siliconata per poter resistere alle alte temperature del forno, e quindi non va mai conferita nella carta altrimenti rovina la frazione da avviare a riciclo. Ma le aziende produttrici, per rispettare la legge, scrivono che il materiale di cui è fatta è PAP 22 e che è carta. L’utente che deve capire? In questo modo si sta inducendo l’utente in errore. Insomma per fare bene stiamo facendo dei brutti passi indietro. Quindi non solo si rischia di dare una informazione sbagliata al consumatore con ricadute sulla qualità delle raccolte, ma addirittura per le aziende una etichetta fatta male può trasformarsi in un boomerang dal punto di vista dell’immagine.
Spesso le pubblicità ci dicono che quel determinato prodotto è 100% riciclabile…
È una tentazione più forte di loro. Quasi tutti scrivono che il loro prodotto è 100% riciclabile. Il Conai sta avvertendo i produttori: ‘Attenzione che quello è greenwashing. Un materiale o è riciclabile o non lo è’. Non esiste un materiale riciclabile al 50%, al 25% o all’87%. Lo scrivono quasi tutti ma forse non sanno che le multe possono essere salatissime. Inoltre la legge prevede che a segnalare alle Province o alle Città Metropolitane questi comportamenti scorretti, possono essere anche i singoli consumatori con la diretta conseguenza che basta poco per una azienda in odore di greenwashing per venir presa di mira e subire pesanti sanzioni.
Quindi la soluzione è una etichetta digitale?
La nostra etichetta digitale risolve queste criticità. Oggi abbiamo superato quota 1 milione e 700 mila prodotti classificati all’interno della nostra banca dati, e in più diamo la possibilità ai produttori di indicare quelle che noi chiamiamo le info di sostenibilità. Non è pubblicità o greenwashing ma diamo la possibilità ai produttori di mettere in evidenza gli sforzi sostenuti per rendere più sostenibile gli imballaggi.
Ci sono aziende che hanno deciso di farsi l’etichetta ambientale in casa e a basso costo inserendo dei QR code sui loro prodotti che rimandano ad una pagina del loro sito internet. Peccato che queste pagine o sono paginoni pieni zeppi di informazioni e di difficile usabilità oppure vengono inseriti dei dati probabilmente giusti per la zona geografica dell’azienda o dello stabilimento dove c’è la produzione ma non validi su tutto il territorio nazionale.
Mentre la nostra etichetta, grazie alla geolocalizzazione, dice esattamente le modalità di conferimento di quel rifiuto a seconda della città in cui si trova l’utente.
All’interno dell’ultimo Milleproroghe, che ha rimandato l’entrata in vigore dell’obbligo dell’etichetta, c’è scritto che entro trenta giorni dall’entrata in vigore il ministero deve emanare un decreto di natura non regolamentare per l’adozione di linee guida tecniche per la corretta etichettatura degli imballaggi. Quindi ad oggi non esiste un vero strumento che fissa delle regole certe per tutti?
A dire il vero il Ministero della Transizione doveva produrre un disciplinare entro il 30 gennaio di quest’anno, ma ad oggi non ce n’è traccia. Probabilmente è stato rallentato dalla corsa al rispetto di tutti gli adempimenti e scadenze per il PNRR. Comunque sia ad oggi non esiste nessun disciplinare, quindi per le aziende l’unica guida ufficiale da seguire per il rispetto dei requisiti previsti dalla legge sono le linee guida del Conai.
Vuoi lanciare un appello alle aziende?
Sono anni che si sta spingendo per aiutare le persone a fare una raccolta differenziata corretta e più si ritarda, più ci rimettono i Comuni, i cittadini e ovviamente l’ambiente. Se quello della gestione rifiuti deve essere un circuito virtuoso tutti devono fare la loro parte. Quindi l’appello che faccio è alle aziende perché non facciano un mero adempimento di facciata, specialmente a quelle che utilizzano imballaggi complessi e notoriamente difficili da smaltire.
Soprattutto a queste aziende chiedo di fare uno sforzo in più per dare informazioni il più possibile corrette. Perché se sono loro con milioni di prodotti di consumo circolanti a dare le informazioni sbagliate, avremo milioni di conferimenti sbagliati che vanno a guastare tutto il sistema; inceppando e mandando in crisi un sistema che si regge su dei rimborsi economici che vanno ad abbattere i costi della raccolta premiando chi fa una raccolta di qualità.