Oltre 14,4 miliardi di euro: sono i risparmi già ottenuti in Italia, a fine 2021, grazie all’adozione efficace di pratiche manageriali di economia circolare, che hanno permesso di utilizzare meno risorse e di estendere il ciclo di vita utile dei prodotti nei sette macrosettori oggetto d’indagine. Una bella cifra che tuttavia rappresenta solo il 14% circa di quanto si potrebbe risparmiare entro il 2030 se la circular economy venisse applicata nella sua totalità: più di 103 miliardi di euro all’anno, cui vanno aggiunte, in ottica di impatto ambientale, quasi 1,9 MtCO2 di emissioni in meno (il 45% dalle costruzioni, il 21% dal food&beverage, il 20% dall’automotive). A dirlo è il Circular Economy Report 2022 dell’Energy&Strategy della School of Management del Politecnico di Milano, giunto alla sua terza edizione e presentato oggi in una mattinata di dibattito che ha coinvolto come sempre le aziende partner.
Ma il bicchiere va visto mezzo pieno: per la prima volta ha superato la metà (57%, era il 44% nel 2021) la quota di imprese intervistate dall’Osservatorio che ha adottato almeno una pratica di economia circolare, tra cui praticamente tutto il comparto tessile e del food&beverage (80% o più), mentre è scesa al 27% la soglia degli irriducibili, che non ne vogliono nemmeno sentire parlare. Inoltre, è salita al 61% la percentuale di aziende che ha investito significativamente, rispetto alla propria taglia, in questo nuovo paradigma e che in più di metà dei casi stima tempi di rientro inferiori o pari a 2 anni: una scommessa che oggi vede a fianco degli imprenditori anche il sistema bancario-finanziario, il cui interesse verso l’economia circolare è cresciuto nell’ultimo anno al punto da mettere a disposizione oltre 30 miliardi di euro di finanziamenti per supportare la transizione.
“Sono tante le sfide ancora da affrontare con una più decisa volontà di azione, da quelle normative a quelle industriali, soprattutto legate alla riconversione dei business lineari – commenta Davide Chiaroni, responsabile della ricerca e vicedirettore dell’E&S -, eppure pare lecito chiudere questo 2022 con un po’ di ottimismo. Rispetto ai temi energetici, che nell’ultimo anno hanno subìto shock e ribaltamenti quasi quotidiani, questo Osservatorio vuole avere uno sguardo ‘di lungo termine’ e cogliere tutti i segnali della transizione verso un sistema economico più responsabile nella produzione e nel consumo. Non bisogna lasciarsi distrarre dai temi ‘caldi’ né sottovalutare la portata, e il tempo necessario, per questa trasformazione. L’economia circolare infatti è altra cosa rispetto allo sviluppo sostenibile, né si può circoscrivere alle pratiche di riciclo dei materiali e di gestione dei rifiuti (dove peraltro l’Italia spicca a livello europeo), anche se così potrebbe sembrare guardando gli stanziamenti del PNRR: al contrario, è un approccio in cui si minimizzano le risorse usate, ma senza diminuire la crescita economica e sociale, il progresso tecnico e l’innovazione. È una prospettiva complessa che richiede un ripensamento dell’intero ecosistema di filiera”.
La survey: diventare circolari crea valore? Quanto è diffusa in Italia l’economia circolare?
Sono state intervistate oltre 200 aziende di sette macrosettori fondamentali per l’economia italiana – automotive, costruzioni, elettronica di consumo, food&beverage, impiantistica industriale, mobili e arredamenti, tessile – e si è calcolato che a fine 2021 i risparmi conseguiti da chi aveva implementato pratiche manageriali di economia circolare ammontavano a 14,4 miliardi di euro: sul podio, food&beverage e impiantistica industriale, rispettivamente con 5,4 e 1,2 miliardi di euro, mentre all’estremo opposto troviamo elettronica di consumo, tessile e automotive. In tutti i casi però, anche i più virtuosi, si tratta di un percorso di transizione appena intrapreso.
Il contributo maggiore al risparmio, a livello complessivo, deriva dalle pratiche di Recycle, con circa 3,5 miliardi di euro annui, seguite da quelle di Remanufacturing/Reuse e Take Back Systems (rispettivamente 2,3 e 2,2 miliardi). Di contro, le pratiche che al momento incidono meno, perché meno applicate, sono quelle di Design for Upgradability e Repurpose (0,7 e 0,6 miliardi). Il focus delle imprese infatti è ancora legato al riciclo dei prodotti/componenti e alle fasi di progettazione, per ridurre l’impatto ambientale e allo stesso tempo fornire opportunità di recupero e riutilizzo di prodotti e materiali all’interno dei propri sistemi produttivi: aspetti fondamentali ma certamente non esaustivi del valore della circolarità.
Tra i principali benefici di processo indicati dalle aziende che hanno applicato pratiche di economia circolare ci sono la riduzione dei rifiuti derivati dalla produzione e quella dell’impatto ambientale generato, oltre all’uso efficace di materiali riutilizzati o riciclati. Quanto ai benefici a livello aziendale, in testa troviamo lo sviluppo del brand aziendale e dell’immagine «green», la creazione di progetti e prodotti innovativi e le partnership con soggetti terzi per programmi di logistica inversa. Tra i benefici economici, il più apprezzato è la valorizzazione economica degli scarti produttivi, seguita dalla crescita aziendale, dallo sviluppo di progetti e prodotti innovativi e dalla riduzione dei costi di produzione e dell’approvvigionamento dei materiali.
Il 57% delle aziende intervistate ha affermato di aver adottato almeno una pratica di economia circolare, in crescita rispetto al 44% dello scorso anno, e di conseguenza sono calati gli “scettici”, ossia coloro che non le hanno adottate e non intendono farlo, scesi dal 34% al 27%.
Il settore tessile è quello con la percentuale più alta (82%) di aziende che hanno implementato almeno una pratica manageriale di economia circolare, seguito dal food&beverage (80%), mobili e arredamento (62%) e impiantistica industriale (59%), mentre l’elettronica di consumo si ferma poco sopra il 15%.
Il 61% delle aziende che hanno investito nell’economia circolare hanno stanziato fino 50.000 euro (per alcune una grossa cifra, se raffrontata alla loro dimensione), un quarto si è spinto tra i 50.000 e i 150.000 euro, il 4% ha superato i 500.000 euro. Tuttavia, appena il 10% ha beneficiato di incentivi o agevolazioni fiscali, a testimonianza di un’attenzione ancora scarsa sul fronte normativo e fiscale. Il tempo di ritorno degli investimenti è inferiore ai due anni in oltre il 50% dei casi, in circa il 30% addirittura inferiore all’anno (in genere si tratta di pratiche di Design out Waste e Recycle), ma per un altro 30% occorrono invece più di 3 anni.
Chi sceglie di adottare il paradigma dell’economia circolare lo fa per esigenze di sviluppo del business (52%) e per la richiesta del CdA (25%), dimostrando ancora una volta come la consapevolezza del top management rappresenti un driver fondamentale per la trasformazione. Tuttavia, ci si ferma al riciclo dei prodotti/componenti e alle fasi di progettazione, per ridurre l’impatto ambientale e fornire opportunità di riuso di prodotti e materiali all’interno dei propri sistemi produttivi. Solamente il 18% del campione intervistato, meno ancora del già esiguo 23% dello scorso anno, dichiara poi di partecipare a un ecosistema di simbiosi industriale, in cui stabilimenti anche di filiere differenti interagiscono per massimizzare il riutilizzo di risorse normalmente considerate rifiuti; è però altrettanto vero che in genere le imprese che adottano l’economia circolare lo fanno per l’intera gamma di prodotti (35%) o per un buon numero di essi (28%). Ciò che invece dissuade le aziende dall’affrontare la transizione è essenzialmente l’incertezza governativa, che non agevola nella valutazione di decisioni strategiche, insieme ai costi e ai tempi di ritorno degli investimenti. Dal punto di vista normativo qualcosa sta cambiando, ma si è ancora ben lontani dall’affrontare il tema in maniera complessiva e integrata, continuando a concentrare l’attenzione sul riciclo e la gestione dei rifiuti. A giugno 2022 il Ministero della Transizione Ecologica ha definito un nuovo ordine di programmi e strumenti coerenti con la Strategia Nazionale per l’Economia Circolare, basato su tre pilastri: il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti, il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti e il PNRR, dove per l’economia circolare sono stati stanziati 2,1 miliardi di euro, il 40% dei quali destinati all’agricoltura sostenibile.
Il ruolo della finanza sostenibile: oltre 30 miliardi di euro per supportare la transizione
Tra gli attori finanziari interessati alle tematiche ESG, la cosiddetta finanza sostenibile, si assiste a un aumento degli strumenti di debito e di capitale legati all’economia circolare, anche con la creazione di nuovi prodotti dedicati che risultano determinanti per supportare la transizione. Nei criteri utilizzati per la valutazione ESG vi sono infatti voci legate all’economia circolare che favoriscono il raggiungimento degli obiettivi in tutti e tre i pilasti della sostenibilità. All’intero del Rapporto sono analizzati, a titolo puramente esemplificativo, alcuni di questi prodotti.
Complessivamente emerge come vi siano oltre 30 miliardi di euro disponibili tra fondi di private equity, venture capital e private debt (circa 1 miliardo di euro), fondi di public equity (oltre 2 miliardi), strumenti di debito (circa 14 miliardi), finanziamenti di progetti con fondi della Banca Europea per gli Investimenti-BEI (12,7 miliardi).
Alcuni operatori e associazioni, a livello europeo e italiano, hanno stabilito propri criteri o linee guida che li indirizzino nel valutare se un’impresa o un progetto contribuiscono o meno all’economia circolare: si attende la definizione dei Technical Screening Criteria che potrebbero costituire un metodo condiviso per la valutazione degli investimenti sostenibili, e quindi anche circolari, in tutta l’Unione Europea.