Se da un lato la Gran Bretagna è la patria del neoliberalismo (Thatcher docet) dove la massimizzazione dei profitti giustifica qualsiasi azzardo sociale e ambientale, dall’altro la società civile è abituata a contrastare questo tipo di sistema scardinandolo pian piano e dal basso con risultati davvero interessanti.
Se qualche anno fa avevamo parlato del The Real Food Junk Project, ora è il momento di guardare ad un nuovo approccio tutto british allo spreco alimentare. Parliamo dei Community Fridge, un progetto messo in piedi dall’organizzazione ambientale e caritatevole Hubbub che dal 2017 “riunisce le persone per condividere il cibo, incontrarsi, apprendere nuove competenze ed evitare che il cibo fresco vada sprecato”.
Nati come dei semplici frigoriferi per scambiarsi del cibo (come ne esistono in molte parti d’Europa e del mondo) dopo il Covid, le prime ripercussioni sull’economia dovute alla Brexit e l’aumento vertiginoso del costo della vita (a causa della guerra in Ucraina e alcune scelte discutibili degli ultimi governi) i Community fridge si sono moltiplicati arrivando a superare le 450 unità, e si stanno trasformando da semplici frigoriferi di comunità in veri e propri empori.
Questa nuova versione del Community fridge non è molto dissimile da quella degli empori solidali – o Social Super Market – che abbiamo in Italia (come ad esempio gli Hub milanesi contro le spreco alimentare), ossia una specie di mini o supermercati dove chi si trova in difficoltà ha la possibilità di prendere del cibo e altri prodotti di prima necessità (e non solo) a prezzi bassissimi o addirittura gratis. Però alcune differenze, anche sostanziali, con quelli italiani esistono. Ovviamente non patteggiamo per uno o l’altro modello perché consapevoli che non esiste la ricetta perfetta o la bacchetta magica, quindi tutti gli approcci al contrasto dello spreco alimentare hanno pari dignità e validità. Inoltre non tutti quelli italiani funzionano allo stesso modo, come ad esempio esistono differenze tra Solidando l’Hub di iBVA a Milano, quello dell’Arci Anatra Zoppa di Torino o quelli di Ricibo a Genova.
Le differenze
Prima delle differenze forse è meglio guardare i punti in comune. Alla base dei due sistemi ci sono numerose ore di volontariato messe a disposizione dai cittadini, la valorizzazione dal punto di vista lavorativo dei soggetti fragili e per tutti la lotta allo spreco alimentare ha un doppio valore: ambientale, contrastando di fatto la produzione dei rifiuti (ma non solo); ed economico-sociale, ridistribuendo la sovrapproduzione dei prodotti alle fasce più svantaggiate e di conseguenza abbattendone il valore commerciale (per queste fasce di popolazione). E in ultima istanza il sostegno da parte delle istituzioni,in primis i comuni, attraverso agevolazioni fiscali e finanziamenti diretti o indiretti.
Ora le differenze. La prima è legata all’accesso, nel senso che se in quelli italiani (in quasi tutti) chi può usufruire di questo servizio è un soggetto cooptato dai servizi sociali o altro sistema (generalmente sempre comunale) e nessun altro può accedervi, mentre nei Community fridge l’accesso è completamente libero. Dal manager all’homeless chiunque può servirsi del ‘servizio’ con la conseguenza che quelli britannici sono aperti tutti i giorni mentre quelli italiani no.
La seconda differenza è che se in Italia il nocciolo duro dei prodotti che si possono trovare proviene dal Banco Alimentare (o altre organizzazioni similari) e dagli acquisti diretti e indiretti di derrate alimentari fatte dai comuni. In Gran Bretagna il cibo proviene quasi tutto dalla grande distribuzione organizzata (un grosso contributo in questo caso lo da Co-op, finanziando direttamente il progetto), dai negozi di vicinato, dalla Food Bank e dalle donazioni dei privati. Una modalità questa figlia dell’approccio legislativo allo spreco alimentare dove in Italia (con la legge del buon samaritano e la successiva legge Gadda) il privato viene invitato – con blande agevolazioni fiscali – a contrastare lo spreco, mentre in Gran Bretagna è sostanzialmente obbligato ad avviare progetti con le comunità locali per arginare il fenomeno.
Ultima differenza sostanziale è rappresentata dal fatto che nei Community fridge la merce si compra con soldi veri (anche se pochi), mentre in Italia il cibo è gratuito e ridistribuito attraverso dei sistemi “a punti” virtuali il cui scopo è quello valorizzare e in qualche modo riaffermare il valore commerciale del prodotto agli occhi del beneficiario. Invece per quanto riguarda la frutta e verdura quest’ultima viene ceduta gratuitamente sia in Italia che in Gran Bretagna, semplicemente perché è un prodotto altamente deperibile nonostante sia quello dal maggior valore nutrizionale.
Il Commuity fridge di Leighton Buzzard
Per capire meglio il loro funzionamento abbiamo visitato quello nel centro di Leighton Buzzard (a mezz’ora di treno da Londra) nato nel 2021.
Leighton Buzzard è una ridente cittadina di oltre 43 mila abitanti nel Bedfordshire in piena espansione demografica (erano 30 mila nel 2001) perché coinvolta da quel fenomeno che vede cospicui gruppi sociali espulsi dalla capitale inglese (a causa del vertiginoso incremento del costo della vita) riversarsi in massa nelle più economiche contee circostanti. Un fenomeno questo non molto dissimile a quello che stanno vivendo i cittadini milanesi. Inoltre, degna di nota, è la sperimentazione da parte del comune del trasporto pubblico gratis per tutti, in quanto in pochi anni col crescere della popolazione il traffico ha paralizzato le infrastrutture viarie della città. Ma questa è un’altra storia.
Passeggiando per il centro di Leighton quasi non ci si accorge della sua presenza e, il Community fridge, appare come qualsiasi altra attività commerciale ma se si passa a ridosso dell’orario di apertura, la lunga fila di persone in attesa fa capire che non abbiamo a che fare con il lancio commerciale del nuovo iPhone o il taglia unghie con l’effige dalla Ferragni (forse è meglio non dare suggerimenti) ma con un fenomeno degno di attenzione e approfondimento.
All’esterno sono posizionate delle cassette contenenti prodotti di prima necessità (e non) in offerta con prezzi che raramente superano la sterlina (circa € 1,15) come ad esempio pane in cassetta, detergenti per la per la persona e per la casa, bevande varie e addirittura cartoline d’auguri per ogni occasione, oggetti quest’ultimi che per gli inglesi rappresentano quasi una mania e – anche se fa sorridere – possono essere annoverati tra i beni di prima necessità per la loro valenza sociale.
Molte volte le merci in offerta sono così tante che coprono e riempiono i due lati della stradina, costringendo i volontari a spostare la merce per inseguire l’ombra proiettata dal muro evitando così che i prodotti alimentari vengano surriscaldati dai raggi solari.
Entrando al suo interno il negozio non è molto grande, probabilmente non supera i 30 metri quadrati, e una freccia sta ad indicare il percorso da seguire. Si comincia con la possibilità di prendere una grande borsa riutilizzabile, poi un ampio spazio dedicato alla frutta e poi quello per la verdura. Tutti prodotti distribuiti gratuitamente.
Al centro della stanza ci sono zucchero, caffè, latte, olio, riso e altri beni di prima necessità e qualche snack con i relativi prezzi, dove il più caro raramente supera le due sterline. Mentre nella parte alta delle pareti, scaffali e cassette che contengono altri prodotti di prima necessità, qualche pacco di pannolini per bambini, donne e non più giovani.
Quasi alla fine del percorso ci sono i famosi frigoriferi. In tutto sono tre ma nel momento della nostra visita solo uno era in funzione, al cui interno c’è prevalentemente frutta e verdura di quella imballata (come piace alla grande distribuzione) e qualche tramezzino. Il percorso si conclude con la cassa, dove si possono pagare i prodotti anche con carta di credito e poi c’è l’honesty bucket (il secchiello dell’onestà) nel quale è possibile introdurre il denaro per l’acquisto dei prodotti in offerta esposti all’esterno o inserire le offerte, sempre in denaro, che arrivano dai privati cittadini.
Abbiamo scambiato qualche parola con le due donne che in quel momento gestivano il “negozio”. Ci hanno raccontato che sono delle volontarie e tutti i prodotti che vedevamo esposti cambiavano di giorno in giorno in base a quello che riescono a recuperare. La maggior parte del recupero (atto da altri volontari durante la giornata) proviene dalle altre attività commerciali di vicinato, da donazioni di privati cittadini, alcuni marchi della grande distribuzione con punti vendita nelle immediate vicinanze e che molto proviene da Co-op. Loro fanno quel che possono per aiutare i centinaia di cittadini che si servono del servizio ma la richiesta è in costante e continuo aumento.
Nel congedarci le due donne hanno insistito nel prendere alcuni prodotti, spingendoci verso le banane perché “sono forse troppe, ce ne arrivano tutti i giorni e quasi non sappiamo cosa farne”.