Con il lockdown dovuto all’epidemia da Covid 19 in molti paesi del mondo vengono sprecate quotidianamente montagne di prodotti alimentari tra cui uova, latte, frutta e verdura. La pandemia ha infatti costretto i ristoranti a chiudere, limitato i trasporti e le catene di approvvigionamento, aggravando ancora di più le conseguenze della sovrapproduzione. E man mano che il cibo marcisce, rilascia metano, un potente gas serra. Questa è la situazione che descrive Emma Charlton su weforum.org l’house organ del Word Economic Forum mentre negli Stati Uniti le inchieste del Wall Street Journal e del New York Times cominciano a portare all’attenzione del grande pubblico le contraddizioni di un sistema di produzione agricolo orientato verso l’esportazione e la massimizzazione del profitto messo in crisi dal Coronavrus.
Non si tratta quindi di “semplice” spreco di cibo in un momento in cui cresce l’emergenza alimentare, ma anche di un serio pericolo ambientale che in relazione al riscaldamento globale innalzato dai gas sprigionati dalla decomposizione del materiale organico: metà metano e metà anidride carbonica.
Stando ai dati dell’IPCC il metano è un potente gas serra, da 28 a 36 volte più efficace della CO2 nell’intrappolare il calore nell’atmosfera per un periodo di 100 anni.“Molti produttori orientati all’esportazione producono volumi troppo grandi per essere assorbiti nei mercati locali, e quindi i livelli di rifiuti organici sono aumentati in modo sostanziale”, afferma Robert Hamwey, responsabile degli affari economici dell’agenzia delle Nazioni Unite UNCTAD. “Poiché questi rifiuti vengono lasciati marcire, si prevede che i livelli di emissioni di metano, un gas a effetto serra, proveniente da prodotti in decomposizione, aumenteranno drasticamente nella crisi e nei mesi immediatamente successivi alla crisi”.
Che lo spreco di cibo fosse già un problema prima della crisi non è una novità. Negli Stati Uniti 218 miliardi di dollari vengono spesi per la coltivazione, la lavorazione, il trasporto e lo smaltimento di alimenti che non vengono mai consumati. Un dato pari all’1,3% del Pil statunitense come emerge dalle ultime analisi fatte da ReFED.
In Italia non ce la passiamo meglio. Secondo il Rapporto Waste Watcher 2020 sono oltre 2.200.000 tonnellate di cibo si sprecano ogni anno nelle case degli italiani, per una stima di 36,54 chilogrammi a testa e un valore di quasi 12 miliardi di euro che sommati ai 3 miliardi 293 milioni di spreco della filiera ci portano ad oltre 15 miliardi di euro in totale, pari all’1,2% del Pil nazionale. Ovviamente questi sono dati sottostimati perché non tengono conto dell’economia sommersa del settore agroalimentare italiano.
Crollo dei prezzi dei generi alimentari
L’eccesso di produzione rispetto alla domanda ha anche visto crollare i prezzi. L’indice dei prezzi alimentari della FAO (FFPI) ha registrato una media di 162,5 punti a maggio 2020, in calo di 3,1 punti da aprile e ha raggiunto la media mensile più bassa da dicembre 2018. L’indicatore è sceso per quattro mesi consecutivi e l’ultimo rilevazione riflette i valori in calo di tutti gli alimenti materie prime – latticini, carne, cereali, verdure – tranne lo zucchero, che è aumentato per la prima volta in tre mesi. Nonostante i dati facciano temere il peggio alla Fao guardano il bicchiere mezzo pieno. “Gli impatti della pandemia COVID-19 sono stati avvertiti a vari livelli in tutti i settori alimentari valutati dalla FAO – dice Boubaker Ben-Belhassen, direttore della divisione FAO per il commercio e i mercati -. Mentre il COVID-19 ha rappresentato una grave minaccia per la sicurezza alimentare, nel complesso, la nostra analisi mostra che dal punto di vista globale, l’agricoltura e i mercati delle materie prime si stanno dimostrando più resistenti alla pandemia rispetto a molti altri settori. Ciò detto, a causa delle dimensioni della sfida e delle enormi incertezze ad essa associate, la comunità internazionale deve rimanere vigile e pronta a reagire, se e quando necessario”.
L’aumento della disoccupazione e la perdita di reddito
Tutto questo mentre la pandemia sta acutizzando alcune tendenze alimentari globali come la povertà. “Quest’anno, circa 49 milioni di persone in più potrebbero cadere in estrema povertà a causa della crisi COVID-19”, ha affermato António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. “Il numero di persone che sono fortemente insicure dal punto di vista alimentare o nutrizionale si espanderà rapidamente. Anche in paesi con cibo abbondante, vediamo rischi di interruzioni nella catena di approvvigionamento alimentare.”
Dello stesso avviso è Maximo Torero, capo economista dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, affermando che i sistemi alimentari del mondo sono minacciati come non mai in passato, poiché la pandemia e i blocchi delle attività produttive hanno ostacolato la capacità delle persone di raccogliere, comprare e vendere cibo. “Dobbiamo stare attenti”, ha detto. “Questa è una crisi alimentare molto diversa da quelle che abbiamo visto”.
I raccolti sono sani e le forniture di alimenti di base come i cereali sono “robuste” (secondo il rapporto delle Nazioni Unite sull’impatto di Covid-19 sulla sicurezza alimentare e sulla nutrizione) ma la maggior parte delle persone reperisce il cibo dai mercati locali, molto vulnerabili all’interruzione delle attività produttive.
L’aumento della disoccupazione e la perdita di reddito associata ai blocchi rendono anche il cibo fuori dalla portata di molte persone in difficoltà. Sebbene i mercati globali siano rimasti stabili, il prezzo degli alimenti di base ha iniziato ad aumentare in alcuni paesi. Tra questi anche l’Italia dove l’ultima previsione dell’Istat per il mese di giugno parla di una crescita del costo del beni alimentari del 2,5% “con un’accelerazione di quelli degli alimentari non lavorati (da +3,7% di maggio a +4,1%)”.
Insomma una situazione che non risparmia l’Italia. Infatti secondo il Banco Alimentare “il numero di richieste di aiuto alimentare è aumentato mediamente di circa il 40 per cento su tutto il territorio nazionale, con picchi del 70 per cento nelle regioni del Sud, un incremento di indigenti confermato anche dal crollo della ricchezza prodotta dal Paese, con un calo del Pil secondo l’Istat del 5,4% nel primo trimestre del 2020. I dati ci dicono che il 77 per cento delle famiglie già fragili ha visto cambiare la propria disponibilità economica e il 63,9 per cento ha ridotto l’acquisto di beni alimentari”.
Dello stesso avviso anche la Caritas che nel suo monitoraggio sulla situazione nei suoi centri dal 9 al 24 aprile scorso ha rilevato “il raddoppio delle persone che per la prima volta si rivolgono ai Centri di ascolto e ai servizi delle Caritas diocesane rispetto al periodo di pre-emergenza. Cresce la richiesta di beni di prima necessità, cibo, viveri e pasti a domicilio, empori solidali, mense, vestiario, ma anche la domanda di aiuti economici per il pagamento delle bollette, degli affitti e delle spese per la gestione della casa”.