La presenza in un negozio di Milano di diverse confezioni di piatti di plastica in vendita, che sembrano del tutto simili a quelli monouso ma che vengono proposti al mercato come riutlizzabili e riciclabili ci propone alcuni interrogativi sugli effetti e sull’efficacia della direttiva SUP (Single use plastic) in vigore da poco più di un anno.
In effetti, come si può facilmente verificare guardando gli scaffali dei supermercati e dei negozi di casalinghi, nelle mense e negli esercizi della ristorazione collettiva, la presenza di piatti posate e contenitori in plastica monouso si è fortemente ridotta e in molti casi praticamente azzerata. Va detto anche che tali manufatti sono stati sostituiti solo in minima parte con prodotti realizzati in plastica e materiali biocompostabili, che nel nostro paese sono stati esclusi dei divieti della direttiva.
Tuttavia permangono notevoli elementi di incertezza e ambiguità anche nelle tabelle della direttiva stessa, che definiscono quali prodotti sono da considerarsi monouso. Queste sembrano concentrarsi soprattutto sulle modalità di utilizzo dei prodotti, entrando solo in parte nel merito delle caratteristiche tecniche dei materiali con cui vengono prodotti, diversamente da quanto invece è avvenuto in passato per le misure che hanno determinato la messa al bando dei sacchetti leggeri e ultraleggeri per la spesa, che contenevano dei riferimenti specifici per gli spessori dei sacchetti in plastica tradizionale per poterli considerare riutilizzabili.
Il caso dei piatti che abbiamo trovato e che dispongono di una certificazione di “riutilizzabilità”, ci fa interrogare su quali sono stati i criteri alla base di questa certificazione che rendono tali prodotti completamente “a norma” per la loro commercializzazione. Nella direttiva SUP viene infatti definito “prodotto di plastica monouso: il prodotto fatto di plastica in tutto o in parte, non concepito, progettato o immesso sul mercato per compiere più spostamenti o rotazioni durante la sua vita essendo rinviato a un produttore per la ricarica o riutilizzato per lo stesso scopo per il quale è stato concepito”.
Sembrerebbe quindi che qualora possa essere dimostrato che tali prodotti possano essere lavati e riutilizzati per un numero di volte superiore al singolo consumo, non rientrino tra quelli da considerare “monouso” e quindi vietati. In tal caso la responsabilità del loro utilizzo “corretto” e del loro eventuale smaltimento ricadrebbe sulla buona volontà dei consumatori e degli utilizzatori finali.
A questo punto sorgono alcuni interrogativi:
Ci si può aspettare che almeno per un certo periodo possa esserci una diffusione, ridotta ma ancora significativa, di piatti posate e contenitori in plastica per alimenti che, pur avendo in apparenza, tutte le caratteristiche dei prodotti monouso possano essere considerati riutilizzabili e quindi commercializzabili?
Per il momento dobbiamo constatare che le posate in plastica monouso stanno rapidamente scomparendo dal mercato… ma ci dobbiamo forse aspettare che, come per i piatti, magari tra qualche mese potremmo incontrare confezioni di posate in plastica che dispongono di un marchio di riutilizzabilità? Inoltre bisognerebbe anche capire quale potrà essere il futuro dei bicchieri in plastica che al momento sono esclusi dalla direttiva SUP. Continueranno ad essere ammessi oppure prima o poi tenderanno ad essere eliminati anch’essi?
E’ necessario forse intervenire per una nuova messa a punto della direttiva SUP per il nostro Paese, che stabilisca ulteriori criteri più stringenti sui prodotti che possono o non possono essere commercializzati?