Giudicare i risultati di una Conferenza delle Parti sul clima, come l’ultima COP tenutasi in Egitto, è sempre un’operazione delicata. Da un lato infatti c’è la consapevolezza dell’assoluta urgenza del taglio delle emissioni, sottolineata dal segretario generale delle Nazioni Unite “Siamo su un’autostrada per l’inferno climatico con il piede sull’acceleratore”.
D’altra parte si deve riconoscere che, con qualche eccezione, le COP hanno consentito nel tempo di fare progressivi passi in avanti. Per esempio, sul fronte degli impegni dei vari paesi, la Iea ha calcolato che, se questi fossero rispettati (cosa tutt’altro che scontata) l’incremento della temperatura sarebbe stato di 2,1 °C prima della COP26, di 1,8 °C con gli impegni di Glasgow lo scorso anno, COP26, e di 1,7 °C con gli innalzamenti degli obiettivi presentati quest’anno in Egitto (come hanno fatto l’Indonesia e l’Australia).
Ma chiaramente gli obiettivi non sono ancora sufficientemente ambiziosi e l’asticella degli 1,5 °C è terribilmente vicina. Nel 2021 l’incremento della temperatura media mondiale rispetto al 1850 è stato di 1,21 °C (ma il 2020 aveva raggiunto i 2,36°C).
In sostanza, la necessità di accelerare drasticamente la corsa di rinnovabili, efficienza ed elettrificazione, e contemporaneamente ridurre l’impiego di combustibili fossili non ha trovato in questa COP una spinta sufficiente, anche per la resistenza dei paesi produttori di gas, petrolio e carbone. E, non a caso, è salito a più di 600 il numero dei delegati del mondo fossile presenti in Egitto.
Ma veniamo a quello che giustamente viene considerato il principale risultato della COP27, e cioè la sofferta decisione di avviare la creazione di un fondo per la riparazione dei danni climatici delle nazioni più sfortunate. Il tema del “Loss and Damage”, che i paesi ricchi avevano a lungo cercato di evitare, in Egitto si è sbloccato grazie all’intervento della UE che ha chiesto di indirizzare le risorse che verranno raccolte ai paesi più vulnerabili. La scelta europea e la pressione dei paesi in via di sviluppo hanno sbloccato anche la posizione degli USA, in passato sempre contrari a questa misura. Peraltro, sarà tutto da verificare l’appoggio del nuovo Congresso al finanziamento di questa misura.
La creazione del fondo L&D imporrà ovviamente anche una revisione della categoria dei paesi in via di sviluppo, che oggi racchiude paesi come la Cina e l’Arabia Saudita.
Alla fine della conferenza il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha giustamente commentato: “Il fondo Loss and Damage rappresenta uno strumento importante, ma se non adotteremo obiettivi più ambiziosi le piccole isole scompariranno nell’oceano e l’Africa si trasformerà in un deserto.”
E veniamo all’Italia. Purtroppo, la presenza delle nostre istituzioni nella Conferenza e la possibilità quindi di incidere è stata del tutto marginale. Del resto non pare che il nostro Governo sia interessato ad occuparsi di questa emergenza (a parte la breve puntata “diplomatica” in Egitto della Meloni).
Significative, ad esempio, le presenze di peso di altri paesi. La Germania, ad esempio, oltre al cancelliere Olaf Scholz, nella fase finale decisiva ha inviato la ministra degli esteri Annalena Baerbock e per tutta la durata della COP si è fatta sentire l’inviata per il clima Jennifer Morgan (già presidente di Greenpeace International).
Insomma, si tratta di capire che in quelle sedi si decidono orientamenti importanti per le politiche nazionali. E, soprattutto, si deve avere consapevolezza dell’impatto decisivo per il pianeta, ma anche per le varie economie, che le scelte climatiche avranno nei prossimi anni e decenni.
Gianni Silvestrini, Direttore scientifico Kyoto Club