Mentre l’Unione europea sta lavorando da tempo ad una normativa contro le pratiche di greenwashing, nell’ambito del festival Circonomia si è fatto il punto sulla situazione legislativa con la presentazione del Rapporto Greenwashing 2023, dedicato alle misure attive in Italia e nel mondo per contrastare le pubblicità e le aziende che dicono di essere “green” senza esserlo.
“Tutti vogliono presentarsi come sostenibili, ma è importante farlo in maniera corretta – ha spiegato Francesco Ferrante, Vicepresidente del Kyoto Club – Secondo un’indagine di Eurobarometro, si contano oltre 200 esempi di brand che fanno greenwashing, creando confusione nel consumatore. La proposta di direttiva sui ‘green claims’ che è stata presentata dalla Commissione europea il 22 marzo non impatta solo sulle scelte di marketing aziendale, ma ha una valenza di enorme portata, soprattutto in ambito economico. Per questo nel rapporto mettiamo sotto la lente ‘casi di scuola’ di greenwashing in Italia e nel mondo, e facciamo luce sul contesto europeo e internazionale nel quale si inserisce la direttiva”.
Il termine greenwashing – si legge nel rapporto – nasce negli anni Ottanta, riferito inizialmente alle catene alberghiere che invitano gli ospiti a riutilizzare più volte gli asciugamani invece di farli lavare ogni giorno; una richiesta che veniva spacciata per ambientalista ma derivante, in realtà, solo dalla volontà di contenere le spese.
In Italia la direttiva europea andrebbe a colmare un vuoto, perché non c’è una vera e propria norma che regoli e persegua le pratiche scorrette, sebbene l’Autorità garante del mercato e della concorrenza abbia comminato multe anche ad aziende molto note.
Più avanti dell’Italia è la Francia, dove è stata vietata la pubblicità relativa alla commercializzazione o promozione dei combustibili fossili e dove sempre in base alla stessa legge ‘Climate & Resilience’ c’è l’obbligo di indicare, all’interno degli annunci pubblicitari, l’impatto climatico dei prodotti.
Principio di trasparenza che regola il “Green Claims Code” in Gran Bretagna, introdotto affinché le aziende possano comunicare correttamente le proprie credenziali ecologiche, riducendo al contempo il rischio di indurre gli acquirenti in errore.