Mercoledì 12 aprile la Commissione del Senato sulle Politiche dell’Unione europea ha ospitato delle audizioni informali di associazioni di categoria e consorzi sul tema del nuovo Regolamento imballaggi, la cui bozza è stata presentata lo scorso novembre dalla Commissione Ue. Una legge che ridisegnerà alcuni comparti fondamentali dell’economia circolare europea e che ha da subito fatto discutere, soprattutto in Italia. Le perplessità, manifestate in particolare dai Consorzi nazionali, riguardano sia la forma – un regolamento vincolante per tutti i Paesi membri senza possibilità di recepimenti differenti – che la sostanza, perché la norma penalizzerebbe alcune filiere innovative come quella delle bioplastiche compostabili di cui l’Italia è “ambasciatrice” nel mondo.
Ne abbiamo parlato con Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, azienda leader universale nel campo delle bioplastiche.
Allora, dottoressa Bastioli, ce l’ha fatta a convincere l’Europa che le bioplastiche sono meglio delle plastiche tradizionali?
Non vorrei che la questione fosse ridotta a “le bioplastiche sono migliori delle plastiche tradizionali”, perché tutto dipende dalle applicazioni per cui questi materiali vengono usati. Per quei prodotti per cui ancora oggi esiste un rischio di inquinamento del rifiuto organico e la cui riciclabilità è difficile o poco probabile, o laddove esiste un problema di rilascio di microplastiche in acqua e suolo, le bioplastiche possono essere una opportunità di ridisegnare interi sistemi.
Il Regolamento sui rifiuti da imballaggio della Commissione UE ha riconosciuto finalmente il valore delle bioplastiche compostabili in quanto necessarie quando ci sia un’altissima probabilità di inquinare il ciclo del rifiuto organico. Tuttavia, il medesimo regolamento presenta numerosi aspetti di incoerenza ripercorrendo, per alcuni tratti, l’approccio della proibizione seguito dalla direttiva Single Use Plastics – SUP. Il testo, da una parte, afferma la necessità di usare imballaggi compostabili dove vi sia difficoltà di riciclo e connessione con la filiera del rifiuto organico e, dall’altra, vuole bandire un’ampia serie di applicazioni che presentano proprio queste caratteristiche, paventando così la cancellazione di intere filiere altamente tecnologiche in Europa. Realismo e pragmatismo sono elementi essenziali perché la transizione ecologica avvenga davvero: la SUP dovrebbe insegnare qualcosa a questo riguardo. Nel momento in cui si prova a cancellare un’intera filiera, si creano meccanismi di autodifesa, che lasciano spazio alla commoditizzazione dei prodotti, a soluzioni furbe e alla perdita di qualità e di sicurezza: esattamente il contrario dell’obiettivo che si voleva perseguire.
Non dobbiamo dimenticare che l’Italia possiede competenze all’avanguardia ed impianti primi al mondo nella filiera delle bioplastiche e biochemical, nel trattamento dei rifiuti organici, nelle filiere di qualità dell’agroalimentare, nonché, più in generale la leadership europea nel settore della bioeconomia che vale nel nostro Paese il 10% del valore della produzione con 364,3 miliardi di euro di fatturato e 2 milioni di persone occupate. L’industria bio-based europea poi, con i suoi 814 miliardi di euro di fatturato e 3,6 milioni di persone impiegate, che utilizza meno energia e meno risorse ed è in grado di rigenerare i suoli sempre più a rischio, rappresenta un settore fondamentale per l’autonomia e la competitività a lungo termine dell’Europa e per raggiungere gli ambiziosi obiettivi del Green Deal.
Questo settore, tuttavia, se non supportato da necessarie azioni politiche, rischia di essere messo a repentaglio dagli importanti investimenti attuati da Stati Uniti e Cina. Dobbiamo capire che l’Europa ha la necessità di investire politicamente ed economicamente nella bioeconomia circolare, creando un ambiente politico favorevole ad attrarre e mantenere l’innovazione, senza cedere la propria leadership a mercati extraeuropei. Strategico sarà il Piano industriale per il Green Deal nonché l’inserimento della chimica verde e dell’industria bio-based nell’elenco delle clean technologies.
Perché ci sono obiezioni ambientaliste alle bioplastiche?
In ogni ambito, anche nel mondo ambientalista, ci sono opinioni diverse sui bioprodotti della bioeconomia. Una delle preoccupazioni è che questi bioprodotti possano essere giocati con un modello lineare e dissipativo e che possano essere un mera sostituzione dei prodotti in plastica tradizionale con una logica drop-in. Talvolta vengono addirittura considerati come se fossero essi stessi i responsabili dell’inquinamento. Certamente è controproducente oltre che ingiusto, punire i loro supposti effetti, prima ancora di averne sperimentato la portata rigenerativa in campo. Purtroppo, ancora oggi, questo è però il contesto in cui si devono barcamenare molte imprese che fanno innovazione: tra logiche a silos, lobby in difesa di posizioni cristallizzate nel tempo, media che cavalcano “informazioni” senza il dovuto approfondimento.
Il punto è che con questi nuovi bioprodotti occorre giocare un’altra partita, che è quella del cambio di passo radicale in cui essi non sono semplicemente calati in nuovi sistemi di produzione e consumo, ma rappresentano dei catalizzatori della transizione verso un nuovo modello rigenerativo di economia che usa materie prime compatibili con i sistemi naturali e ne riduce la quantità. Si tratta in pratica di capire fino in fondo il potenziale di disaccoppiamento tra risorse e sviluppo della bioeconomia circolare, con la sua rete di nuovi impianti e nuovi bioprodotti, le sue bioraffinerie in grado di produrre bioenergia, sfruttare residui e by-products e i progetti di territorio moltiplicabili. In questo senso questo settore è capace di accelerare la rigenerazione delle risorse e la decarbonizzazione e per questo dovrebbe essere al centro delle strategie italiana ed europea per la transizione ecologica, non solo a parole ma con misure tangibili.
A dimostrazione di come la filiera italiana delle bioplastiche e dei biochemical abbia messo in campo soluzioni concretamente in grado di disaccoppiare sviluppo e uso delle risorse, basti pensare alla trasformazione dello shopper, da bandiera negativa delle plastiche a strumento per la raccolta differenziata del rifiuto organico, permettendo all’Italia di passare dai 2,5 MT di rifiuto organico raccolto del 2007 a oltre 7MT del 2020 e, ai sacchi per asporto merci, di diminuire di oltre il 58% dal 2009 al 2021. Oggi il nostro Paese è primo in Europa per la raccolta del rifiuto organico (il 47% del totale contro la media europea del 16%).
In questo ambito, l’Italia non si è limitata a sviluppare una filiera tecnologica, ma ha sviluppato anche una vera e propria piattaforma di collaborazione, con il coinvolgimento di Associazioni volontarie come Assobioplastiche e organismi di gestione dei sistemi EPR come Biorepack, il settimo consorzio obbligatorio in seno a Conai sulle bioplastiche, che permette di monitorare ulteriormente lo sviluppo del modello e di far evolvere le infrastrutture e i sistemi di riciclo. Infine, va sottolineata la fondamentale connessione della piattaforma delle bioplastiche e biochemical con le filiere agroindustriali italiane sviluppata negli anni con Coldiretti. Credo che in un momento di transizione, sia fondamentale costruire ponti, e non muri, tra settori ed anime diverse. Solo così potremo collaborare con saggezza e usare i mezzi tecnici di cui disponiamo per risolvere le grandi sfide ambientali con progetti di territorio, monitoraggio continuo e cambio di rotta se necessario.