Con la replica di Greenpeace alla risposta di Biorepack e di Assobioplastiche nei confronti del primo documento dell’ong (che è circolato anche col titolo molto polemico di “Truffa delle bioplastiche”), la questione ad una attenta lettura viene ridimensionata.
Infatti nella controrisposta Greenpeace intanto circoscrive chiaramente il campo al tema degli imballaggi cosiddetti rigidi di plastica biocompostabile. Riconosce la validità della legge, e della pratica, dei sacchetti biocompostabili, peraltro già in uso da anni. Implicitamente riconosce che se ci sono ancora impianti che non riescono ad accettare frammenti di quei sacchetti bio, questo è un problema loro o che comunque riguarda una frazione minima dell’organico.
Per quanto riguarda gli altri imballaggi in bioplastica compostabile, nella sua replica Greenpeace dice che inadatti a gestirli sono (solo) gli impianti di sola digestione anaerobica.
C’è un dissenso su quanti siano questi impianti, o forse su come considerare gli impianti che hanno sia la digestione anaerobica che il compostaggio. Per Biorepack e Assobioplastiche si tratta solo del 5% del totale dell’organico. Per Greenpeace sarebbe molto di più (ma non abbiamo trovato la cifra esatta.)
In ogni caso quello che si vuole contrastare è il mantenimento di alti livelli di usa e getta.
Biorepack e Assobioplastiche ricordano che con l’introduzione dei sacchetti bio (e del loro pagamento) l’uso dei sacchetti usa e getta, o perlomeno il loro tonnellaggio, si è ridotto a un terzo, anzi a poco meno di un terzo. Greenpeace ipotizza che non altrettanto accada con i piatti. Eco dalle Città intende raccogliere dati ed elementi di inchiesta su quanto e come si usano piatti e stoviglie usa e getta oggi in Italia. (Ecco cosa scrivevamo nel giugno 21, nell’intervista a Paolo Arcelli)