Attorno al rapporto di Greenpeace Italia sulle bioplastiche compostabili – si può dire forse “contro” le bioplastiche compostabili – c’è stato un po’ di conflitto e soprattutto c’è stata una po’ di tensione tra gli addetti ai lavori. La stessa Greenpeace, dopo le prime repliche, ha voluto precisare e delimitare il campo della polemica. Non c’è nessuna intenzione o volontà di mettere in discussione l’uso dei sacchetti di plastica biodegradabile e compostabile, che sono una realtà da anni e anni e che hanno favorito lo sviluppo della raccolta differenziata e del compostaggio. Certo, per le idee Zero Waste anche i sacchetti bio sono un consumo, uno strumento il cui uso andrebbe limitato al massimo (vedi la campagna Porta la Sporta), ma in realtà è già così. Con l’introduzione dei sacchetti bio l’usa e getta si è infatti ridotto, il riutilizzabile è aumentato. Il peso complessivo dei sacchetti utilizzati si è ridotto a un terzo, anche o soprattutto perché adesso i sacchetti si pagano. E si usano molto più di prima sporte e sacchi riutilizzabili.
La questione adesso sollevata da Greenpeace è quella dei materiali biocompostabili cosiddetti rigidi, cioè piatti, posate, bicchieri e vaschette. E’ più o meno la stessa discussione che c’è stata quando si è introdotta la direttiva Sup, e quando, soprattutto per le resistenze tedesche, la proposta italiana di consentire alcuni usa e getta in bioplastica compostabile non è stata accolta a livello Ue. L’Italia ha adottato ugualmente quella che era la sua esperienza di bioplastiche. Che una parte degli impianti di compostaggio non sia in grado di compostare realmente questi materiali rigidi è un argomento nuovo? Qualcuno tra gli addetti ai lavori ci ha ricordato che per il momento si tratta di una massa poco significativa. Nel 2020 erano forse 3500 tonnellate su 70 mila tonnellate (bioplastiche immesse al consumo come imballaggi, quindi erano soprattutto sacchetti). 8 milioni le tonnellate complessive di umido. E’ possibile che nel 2021 siano molto aumentate, (le tonnellate di materiali “rigidi”) ma siamo ben lontani da livelli allarmanti.
Non è facile indicare con precisione quali e quanti impianti non riescano a compostarli veramente, perché i 110 impianti italiani sono diversi tra loro. Alla fine è possibile che si arrivi a un tavolo tecnico e che ci siano forse delle compensazioni per maggiori costi di triturazione e vagliatura. Ma soprattutto, come per i sacchetti, la sfida è sulla riduzione. Se si trattasse di una semplice sostituzione “uno a uno” dei piatti o delle vaschette da usa e getta di plastica tradizionale a usa e getta di bioplastica sarebbe una sconfitta. Se contemporaneamente ci fosse una significativa riduzione dell’usa e getta a vantaggio del riutilizzabile, la via italiana alla Sup potrebbe essere accettata e anzi seguita a livello europeo.