Nel 2021, la filiera delle bioplastiche ha raggiunto un fatturato di più di 1 miliardo di euro con 275 operatori attivi. Una crescita che, grazie a ricerca e sviluppo, si sta ampliando sempre di più a campi quali l’agricoltura, la ristorazione, l’igiene e della cura della persona.
Proprio sull’agricoltura Assobioplastiche, in collaborazione con Umbria Spring – Cluster Umbro Chimica Verde, ha tenuto un incontro il 17 marzo a Roma a cui hanno partecipato diversi accademici e imprenditori, per illustrare quanto l’agricoltura sia effettivamente uno dei campi in cui le bioplastiche hanno riscontrato un’applicazione funzionale e allo stesso tempo sostenibile.
Presente all’incontro, Daniele Fichera di Federbio, l’Organizzazione della filiera biologica nazionale che rappresenta la tutela del biologico italiano e attualmente impegnato nell’internazionalizzazione del marchio “biologico Made in Italy”, ha dichiarato: “Con Assobioplastiche abbiamo firmato un protocollo di intesa nel 2019 per favorire l’impiego dei teli da pacciamatura biodegradabili in agricoltura biologica. Ci siamo dati degli obiettivi, innanzitutto individuare i requisiti minimi per un miglioramento continuo dei materiali impiegati per la pacciamatura sostenibile, eliminando gli OGM poiché vietati nel biologico e spingendo sulla quota rinnovabile di origine agricola che forma il materiale biocompostabile. Di conseguenza abbiamo iniziato una sperimentazione di tre anni nel campo della coltivazione del pomodoro industriale, impiegando i teli da pacciamatura biodegradabili”.
La sperimentazione è stata presentata da Domenico Ronga (Università di Salerno) insieme ad alcuni rappresentati aziendali. I risultati hanno evidenziato come innanzitutto siano importanti gli standard qualitativi degli aspetti di biodegradabilità degli stessi. In base a questo, si è evinto come l’utilizzo di teli da pacciamatura abbia aumentato la produttività e mantenuto una qualità statisticamente non differente rispetto a quella ottenuta con pratiche tradizionali. In più, questi teli sono in grado di aiutare nel risparmio idrico poiché fanno da cuscinetto al rischio di mancanza d’acqua: “Non siamo ancora in grado di dare dei numeri esatti su quanta acqua occorrerà in un campo agricolo data la criticità del problema siccità”.
Sul tema della biodegradabilità dei materiali impiegati in agricoltura, invece, è intervenuto il Professor Claudio Ciavatta dell’Alma Master Studiorum dell’Università di Bologna: “Al loro fine vita devono tornare al suolo e in questo la bioeconomia è ben allineata poiché tali materiali altro non sono che risorse biologiche rinnovabili. L’agricoltura di per sé utilizza questo tipo di risorse, producendole e riutilizzandole. Il suolo, che è un sistema vivente, deve essere sempre preso in considerazione poiché è il più grande digestore esistente e l’errore fatto finora dall’uomo è quello di voler applicarvi l’idea di alimentazione umana. In questo tipo di lavoro occorrono i chimici del suolo, sono gli addetti al lavoro per eccellenza in questo campo. Per questo motivo le bioplastiche devono essere 100% biodegradabili e non ‘biodegradabili, ma..‘. Un altro fattore da tenere bene a mente sono i tempi di biodegradabilità che variano da suolo a suolo, valutando la sua funzionalità e non un solo parametro”.
Sul tema della bioeconomia è tornata, poi, la dott.ssa Mariagiovanna Vetere, in rappresentanza del Cluster Spring Italiano della Bioeconomia Circolare, sottolineando che va fatta sempre attenzione alle informazioni che quotidianamente riceviamo in materia di bioplastiche. “La bioeconomia è un patto tra l’uomo e la natura e cioè tutte le attività compiute dalle aziende che utilizzano come fonte materie prime naturali. Il Cluster Spring ne raduna moltissime di settori molto diversi, sia pubbliche che private, lavorando insieme e incentivando la richiesta di accessi ai fondi pubblici per la ricerca. Il settore dei biomateriali, che non sono solo le bioplastiche, sta cercando di crescere con non poche difficoltà dal momento in cui chi viene dal settore del fossile non cede molto facilmente il terreno. Per questo stiamo cercando di promuovere un cambiamento culturale partendo dall’informazione scientifica di materiali rinnovabili e sostenibili impiegabili come ad esempio il mais, la canapa o lo zucchero ma più in generale di tutte le risorse lavorate nelle bioraffinerie. Esse lavorano esattamente come le raffinerie tradizionali: entra un solo materiale e escono molti prodotti diversi. Secondo noi, ma anche secondo i dati di Banca Intesa, ad uno Stato conviene molto investire in bioeconomia poiché ciò vuol dire creare anche posti di lavoro. Ma soprattutto vuol dire valorizzare i prodotti agricoli e incentivare alla diversificazione delle colture. La bioeconomia crea ricchezza locale”.
Affinché ci sia un reale cambiamento è anche molto importante lavorare sulla qualità della comunicazione, della formazione e dell’informazione, continua Daniele De Rossi (Cluster Agrifood): “C’è ancora troppa poca consapevolezza sui biomateriali da parte dei cittadini, dei policy maker, degli operatori industriali e a volte anche della comunità scientifica. Noi animatori della bioeconomia dobbiamo investire di più su questi aspetti”. Di pari passo, Angelo Gentili (Legambiente) ha sottolineato come l’associazione che rappresenta, da sempre promuove ricerca e informazione scientifica. La sua convinzione, infatti, è che uno degli aspetti importanti per combattere il cambiamento climatico è la scelta di intraprendere la strada dell’agroecologia: “Agricoltura e ecologia devono andare di pari passo, un ambientalista può dare spunti ma poi spetta agli agricoltori il ruolo di migliorare il sistema”.