Giuseppe Totaro
In Italia l’obbligatorietà della raccolta differenziata del tessile scatterà il 1° gennaio 2022, in anticipo rispetto alle indicazioni fornite dall’Unione Europea che aveva indicato il 2025 come data di avvio. Una decisione, quella presa dal governo italiano, per certi versi sorprendente e che ha senza dubbio colto di sorpresa gli attuali player della raccolta, a partire dal sistema cooperativo che in varie zone d’Italia svolge il servizio soprattutto per quanto riguarda la raccolta degli indumenti usati.
Carmine Guanci, coordinatore della Rete RIUSE (che comprende nove cooperative che operano, in collaborazione con le Caritas locali, nelle diocesi di Milano, Bergamo e Brescia) fornisce il suo punto di vista e quello del sistema cooperativo alla vigilia dell’entrata in vigore dell’obbligatorietà della raccolta differenziata dei tessili:
“Avere anticipato così tanto è per noi negativo, perché si rischia di dover fare dei passaggi molto veloci e in modo frammentario, soprattutto per quanto riguarda le questioni relative alla responsabilità estesa del produttore e all’end of waste. Si parla di obbligatorietà di raccolta del tessile e non solo degli indumenti usati, quindi ci sarà da definire cosa andremo a raccogliere e che impatto questa nuova concezione di raccolta dei rifiuti tessili avrà su tutta la filiera. I tempi sono molto stretti e siamo obbligati ad affrontare una problematica che coinvolge attori diversi, provenienti da contesti differenti, essendo presente anche il mondo della produzione tessile e del commercio al dettaglio che finora non è mai stato coinvolto in questi ragionamenti. In termini di end of waste, un indumento usato è diverso da uno scampolo di produzione o un filato proveniente da impianti produttivi”.
Si apriranno dunque nuovi scenari, in particolare il Ministero dovrà stabilire la Responsabilità Estesa del Produttore: negli altri sistemi collettivi italiani, le raccolte di fatto non sono rappresentate, o hanno comunque un ruolo marginale, quali scenari auspicate?
Auspichiamo che, a differenza degli ultimi consorzi istituiti in Italia, si tengano nella giusta considerazione sia chi ha sviluppato negli ultimi 25 anni un’imprenditorialità sul recupero degli indumenti usati che il mondo cooperativo. Tale settore ha generato centinaia di posti di lavoro no profit e ha sempre massimizzato la ricaduta occupazionale per le fasce più deboli della popolazione e i soggetti svantaggiati. Una ricchezza che non deve essere spazzata via dal nuovo sistema nel nome della massima redditività di chi dovrà gestire le filiere. Si deve pensare anche alle ricadute sociali e occupazionali che da sempre caratterizzano questo settore e rappresentano per i cittadini un elemento qualificante della nostra attività.
Oggi chi gestisce le raccolte, come voi, garantisce una filiera, ma è un ciclo aperto che necessita di collaborazioni con Paesi esteri. Cosa manca secondo voi per sviluppare una filiera di prossimità?
Secondo noi mancano due elementi fondamentali: il primo è un coordinamento a livello europeo e regole comuni valide in tutta l’Unione Europea. Oggi i trasporti internazionali, ma anche il trattamento e la selezione degli indumenti usati, vengono gestiti in maniera diversa da paese a paese. I nostri amici cooperatori di Spagna, Francia e Belgio, per fare un esempio, hanno regole molto più semplici delle nostre nelle fasi di raccolta e trattamento. Non parliamo poi dei trasporti transfrontalieri degli indumenti usati: noi siamo obbligati a fare la notifica, una procedura molto onerosa e complessa, mentre i nostri colleghi in tutto il resto d ‘Europa utilizzano formule molto più semplici. Il secondo aspetto è la dotazione impiantistica: i poli di Prato e quelli campani hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi un’eccellenza in Europa, con una resa e una produttività invidiata da tutti gli altri paesi europei. Ma manchiamo nel riciclo, perché oggi ci ritroviamo ad essere dipendenti, e durante il lockdown lo abbiamo toccato con mano, dai mercati esteri, con paesi come il Pakistan o l’India che riciclano tutta la parte di rifiuto tessile che non può essere avviata al riutilizzo o smaltita in Italia. Qui l’economia circolare ci darebbe modo di creare migliaia di posti di lavoro per riciclare la parte non più riutilizzabile di questi indumenti che i cittadini consumano quotidianamente. Per citare qualche dato: nei comuni dove abbiamo attivato la raccolta differenziata arriviamo a 3-4 kg/abitante, ma l’immesso sul mercato di tessile, quindi non solo di indumenti ma anche biancheria per la casa, tende, lenzuola è di circa 13/14 kg per abitante. È evidente che c’è un grosso gap tra i due dati e in questo gap che dobbiamo intervenire per sviluppare una filiera del riciclo efficiente.
Nel PNRR si fa accenno, nell’ambito dell’economia circolare, ai tessili: quali comporti industriali potrebbero dare vita a cicli di recupero?
Secondo noi sono davvero tanti. Si crede ad esempio che l’unico modo per riciclare il poliestere sia la realizzazione dei contenitori di plastica, invece il quantitativo maggiore è utilizzato nell’industria tessile insieme con una serie di altre fibre sintetiche ampiamente utilizzate nella produzione di abbigliamento o biancheria per la casa. In quest’ambito si potrebbero aprire, grazie al recupero di tali plastiche, scenari nuovi e molto interessanti. Ma fino a che non si introdurrà un eco-design nella produzione dei capi di abbigliamento, siamo obbligati a cercare delle alternative per poter riciclare le fibre sintetiche, perché ad oggi gli sbocchi sono poco nobili, come la realizzazione di imbottiture e fluff. Inoltre potrebbe essere interessante coniugare il tessile con i settori della bioedilizia e dell’efficientamento energetico, con tutta una serie di materiali che potrebbero essere prodotti attraverso il riciclo di quella frazione meno nobile.
Quali sono le criticità che vedete all’orizzonte, per le realtà come le vostre e quali suggerimenti si sente di dare al decisore politico che sta elaborando lo schema di EPR?
Il sistema francese è quello che più si avvicina al nostro ideale di EPR, ed è efficiente perché si basa su un organismo governativo, senza fini di lucro, a cui tutti gli operatori del settore si associano liberamente e che, in base alle entrate, ridistribuisce gli eco-contributi versati dai produttori o da chi immette sul mercato accessori di abbigliamento, con risorse destinate alla filiera, ovvero a chi gestisce la raccolta dell’indumento usato, chi si occupa della selezione, cernita e trattamento sul territorio nazionale. Questo è il modello che noi proponiamo, che garantisca le risorse necessarie a coprire i costi della raccolta e del trattamento, ma con una regia pubblica. In pratica un sistema simile al CONAI o agli altri consorzi di filiera, perché secondo noi è necessario tutelare aspetti che sono opposti ad una logica di minimizzazione dei costi e massimizzazione del profitto, per salvaguardare la ricaduta sociale e occupazionale di questa attività, che gestisce un rifiuto particolare carico di valori che si esprimono nella capacità di generare occupazione per fasce deboli, risorse per progetti di solidarietà che vengono poi investiti sul territorio dove il cittadino dona e conferisce questi indumenti. Inoltre è necessario chiarire che la raccolta degli indumenti usati è una raccolta rifiuti, e come tale deve essere autorizzata dall’ente pubblico: uno dei problemi che la Rete RIUSE affronta sul territorio è proprio la presenza dei cassonetti abusivi, spesso posizionati su suolo privato. In una logica di responsabilità estesa del produttore, le risorse devono essere assegnate esclusivamente ai soggetti qualificati e autorizzati a fare delle raccolte differenziate. Infine, la dotazione impiantistica: non è pensabile che l’obbligo entri in vigore il 1 gennaio 2022 e che per la realizzazione di un impianto di trattamento siano oggi ancora necessari 12-18 mesi solo per le autorizzazioni, senza contare i tempi di realizzazione. Se il legislatore vuole mantenere fede all’impegno deve anche accelerare questo genere di procedure.
Purtroppo le attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti si sono allargate anche al settore degli abiti usati. Quali sono le misure che il sistema cooperativo ha adottato per garantire al cittadino la trasparenza della filiera?
Sulla trasparenza della filiera abbiamo fatto passi da gigante negli ultimi anni, anche sollecitati dagli stimoli che ci arrivavano da più parti. Abbiamo chiesto per anni con forza al legislatore l’istituzione di un Albo che garantisca la piena correttezza degli impianti e consenta agli operatori della raccolta di affidare il rifiuto ad impianti costantemente controllati dall’autorità pubblica; un primo passo è stato fatto con l’ istituituzione della categoria 10 nella white list, a cui tutti gli impianti devono iscriversi per dimostrare la totale estraneità da infiltrazioni malavitose. E come Rete RIUSE lavoriamo esclusivamente con impianti iscritti a questa categoria. Ogni impianto firma con noi un contratto etico, per il rispetto di tutte le norme ambientali e dei diritti dei lavoratori, e dimostra di avere tutte le autorizzazioni ambientali in regola. Inoltre, come Rete RIUSE abbiamo un grande vantaggio rispetto ai nostri competitor: siamo ONLUS per natura, tutti i nostri utili e le risorse che generiamo non sono destinati al profitto di una persona fisica, ma vengono reinvestiti totalmente sul territorio in servizi di pubblica utilità, solidarietà e progetti di accoglienza che i cittadini possono toccare con mano. Infine, i nostri bilanci sono tutti verificati e controllati da organismi centrali o dal Ministero: credo che ad oggi non esista in Italia un soggetto che possa garantire la stessa trasparenza di una cooperativa sociale.