La distanza tra l’urgenza delle azioni necessarie e la lentezza negoziale non è certamente una novità, ma questa volta è scritta nero su bianco. Infatti, guardando tra i pochi aspetti positivi del documento, sopravvive il riferimento allo scenario del contenimento entro il 1,5°C e la conseguente necessità di tagliare del 45 per cento le emissioni di gas serra entro il decennio. Ma il gap tra l’attuale tendenza (di almeno +2,4°C) e gli impegni per realizzare l’obiettivo non ci sono. Si rimanda al 2022 la presentazione dei nuovi obiettivi volontari, in ritardo dunque rispetto alla tabella di marcia fissata a Parigi nel 2015.
La Cop26, lo ricordiamo, si doveva tenere l’anno scorso e fu rimandata causa pandemia. La sua importanza stava proprio nel fatto che, passati 5 anni dall’Accordo di Parigi, era prevista la presentazione di impegni più ambiziosi come previsto dal meccanismo negoziale. Infatti, sin dal 2015 era evidente che l’andamento delle emissioni e degli impegni già assunti portavano verso un aumento molto maggiore della temperatura media globale, ben oltre i 2°C e dunque fuori dall’obiettivo di rimanere “ben al di sotto” di quella soglia e possibilmente verso 1,5°C.
La nota più dolente riguarda il carbone. L’emendamento proposto dall’India di passare dalla progressiva eliminazione (phase-out) del carbone alla riduzione (phase-down) del suo utilizzo – emendamento poi approvato pur di chiudere la sessione negoziale – è il segno del fallimento di questa Cop26. Questa «resistenza fossile» rischia infatti di far evaporare ogni possibilità di rimanere nella traiettoria per evitare di sfondare il limite di 1,5°C.
In tema di sussidi è stato incluso un riferimento alla «giusta transizione» – altro punto positivo – per rispondere al tema sia della riconversione dei lavoratori del settore fossile che per non far gravare sulle fasce più deboli i costi della transizione. Sulla questione degli «offset forestali» – cioè i permessi di emissione associati alle compensazioni forestali, il testo è molto ambiguo e pieno di scappatoie ed è stato annunciato dal segretario generale dell’ONU che verrà sottoposto a revisione. Molto c’è ancora da fare per evitare che il commercio di questi certificati vanifichi ogni serio sforzo di ridurre le emissioni.
Sugli impegni finanziari dei Paesi più sviluppati mirati a compensare i danni climatici ai Paesi meno sviluppati, le cifre necessarie sono ancora lontane da quello che servirebbe e anche questo è un aspetto che dovrebbe essere tra le priorità della Conferenza dell’anno prossimo in Egitto.
Di politicamente positivo c’è stata l’inattesa presentazione di un documento congiunto Cina-Usa che, pur non contenendo impegni minimamente adeguati alla sfida, vedremo se si tradurrà poi in una collaborazione fattiva di cui ci sarebbe bisogno.Del tutto deludente, invece, la presenza dell’Unione Europea segnata da ipocrisia e vero e proprio greenwashing. Nelle ultime due settimane le proposte della Commissione hanno via libera per autorizzare in modo accelerato infrastrutture del gas fossile, che hanno inserito nella proposta di Tassonomia (per definire cosa è “sostenibile”) assieme al nucleare e, in questi giorni, i funzionari stanno lavorando per indebolire la proposta di normativa che metta al bando l’importazione di prodotti provenienti da deforestazione. Il “Green New Deal” europeo – in attesa del nuovo governo tedesco? – ne esce davvero ridimensionato.
L’Italia ha inaspettatamente aderito alla coalizione BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance). Si tratta di un piccolo gruppo di Paesi che si pone l’obiettivo eliminare anche petrolio e gas. Abbiamo però aderito senza impegni precisi al grado minimo di coinvolgimento, come «amici». Vediamo se come «amici» di quelli che vogliono eliminare anche petrolio e gas il governo sarà capace di far ripartire le rinnovabili (e non le trivelle), come ha promesso, sbloccando i processi autorizzativi come anche in questi giorni va annunciando. Sarebbe ora.